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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
15/01/2018
...e altri demoni
Di De André
Una mignotta. Dio non voglia, mi hanno dedicato una canzone che parla di una mignotta. Ho tredici anni, non posso nemmeno uscire per andare a casa di Giusy, l’amica stronza, perché “Non si fa, non sta bene, non sei una ragazza di strada” e che fai? Mi dedichi un pezzo che parla di una mignotta.
di Linda G.

Era l’agosto del 1992, era l’estate del Festivalbar con Luca Carboni che grida “Mare mare mare” con i Roxette che cantano “How Do You Do?” e mio fratello mi aveva spiegato che voleva dire “Come stai?”.  Io studiavo francese e stavo come si sta a tredici anni: un po’ magnificamente, un po’ di merda.

Doveva essere stato un anno parecchio difficile per la mia famiglia, economicamente parlando, perché eravamo stranamente a casa, sui monti, anziché essere al mare in Sardegna, dai nonni. Non erano evidentemente avanzati soldi nemmeno per il biglietto della nave, nemmeno per mandare noi tre fratelli.

Insomma, ho il sentore che, Roxette a parte, fosse un’estate un po’ del cazzo. Però la ricordo e ricordo il giorno del mio compleanno, per quella che poi, avrei intuito, essere una sorta di Epifania. Si ascoltava tanta radio casa all’epoca. Il nostro impianto hi-fi, posto in soggiorno (invidiavo i ragazzini che ne avevano uno in camera), suonava quasi tutto il dì. A volte riuscivamo a concederci qualche piccola perversione ascoltando cassette registrate (TDK da 60 minuti) con tracce dei Doors, un po’ di Police, Queen (Freddie era già morto mannaggia a lui), tantissimo Venditti, di cui mia sorella era innamorata, poco altro. A casa vigeva una dittatura nota ai più come “Mio padre è un rompicoglioni” che ci impediva, di fatto, di sviluppare un gusto personale, di essere cinque e di ascoltare e amare generi diversi, artisti distanti tra loro.

Uno stereo, un gusto, un pensiero, un televisore, un mangianastri, un’intera estate da passare a far nulla.

Ascoltavamo, dicevo, tanta radio. Una radio: quella che il Grande Fratello aveva deciso si potesse sentire. Ci cuccavamo hit montane imperdibili come “Madonna delle nevi” aspettando con ansia e trepidazione il momento delle dediche. Qualche anticristo ogni tanto si dedicava Vasco, qualche bimbo di Satana i Rolling Stones ed io, timidamente, sbavavo al primo riff. Capivo che qualcosa in me non andava nel verso giusto.

Mi sentivo nel 1952, ma con il disagio consapevole di trovarmi quarant’anni dopo.

Era, appunto, il mio giorno, l’8 agosto, ed i miei fratelli decisero di dedicarmi un pezzo alla radio. Un pezzo che si dedica ad una pulzella tredicenne, senza tette, che pesa trenta kg e che spera che questi tredici anni siano la svolta, se non per le tette, per altro. La voce calda dello speaker annuncia “A Linda per il suo compleanno, tanti auguri da Rocco, Cati, mamma e papà”.

“La chiamavano bocca di rosa metteva l’amore metteva l’amore…la chiamavano bocca di rosa metteva l'amore sopra ogni cosa”.

Ringrazio fingendo entusiasmo e penso “Che minchia è sta cosa, non potevano dedicarmi ‘How Do You Do?’ così potevo fingere di essere una danese con lo spazio tra i denti ed urlare ‘To say bye, bye bye’?”. Ascolto in religioso silenzio, cerco di capire. Mi era stato spiegato, con supporto fotografico in gentile concessione da “Le Ore”, da dove escono i bambini, credo, l’anno prima, e faticavo a cogliere il tema. Ascolto, ascolto, ascolto… un bagliore!

Una mignotta. Dio non voglia, mi hanno dedicato una canzone che parla di una mignotta. Ho tredici anni, non posso nemmeno uscire per andare a casa di Giusy, l’amica stronza, perché “Non si fa, non sta bene, non sei una ragazza di strada” e che fai? Mi dedichi un pezzo che parla di una mignotta.

Folgorata come San Paolo sulla via di Damasco, capisco che ho due possibilità:

1-Confermare alla mia famiglia che sì, non lo so ancora, ma sarò una gran meretrice.

2-Capire chi è questo tizio che la descrive così bene, come fa ad affascinarmi dopo così poco.

Chiedo ragguagli sull’autore di cotanta opera e mi viene detto che è De André, che è stato rapito e “Cosa compriamo i giornali a fare se poi non ti informi?”, che stava con Dori Ghezzi che “Non ti ricordi che a Tempio Pausania ha la villa? Cosa ti portiamo a fare in vacanza se poi non stai attenta su dove ti trovi?” e che “In casa abbiamo fior di cassette di De André e come fai a non averle ascoltate?” eccetera eccetera.

Intuisco che la commissione arti e spettacoli di casa G.G. approva la riproduzione della musica di De André. Così inizio ad immergermi in questo suo mondo fatto di nani e puttane, di miserie umane, livori e omofobia.

Ne riconosco l’Italia becera, quella della provincia più provinciale, quella da cui vengo io; ne scopro un’altra, distante, intellettualmente superiore, economicamente avanti anni luce dalla punta di ghiacciaio in cui vivo.

Scopro che la superiorità che riconoscevo ai poeti, appartiene anche ai musicanti italiani e che Genova non è solo il porto da cui mi imbarco per raggiungere la felicità ogni estate, è anche la culla di artisti straordinari.

Trovo una cassetta del concerto con la PFM ed eccomi rapita da Di Cioccio, cavoli se son bravi! Conosco a menadito tutti i pezzi, li canto, posso farlo, a squarciagola. Eppure lui mi sta sulle palle. Fabrizio De André, che tanti chiamano Faber, mi sta sulle palle.

E ci provo eh, ci provo nell’estate del ‘92 ed in tante estati a venire a farmelo star simpatico. Questo non lo posso urlare a squarciagola perché tanti non capirebbero. Ho tredici anni e sto per scoprire la politica, quella partecipata, vissuta con rabbia e cuore. So della destra e della sinistra.

So che De André è di ispirazione, so che spesso ne fanno un simbolo, so che racconta di quel mondo lì, quello della gente che come noi scalpita e sgomita per conquistare diritti e spazio. Ma so che non sente la puzza della stessa merda che annuso io.

So che i suoi maglioni smunti non sono come quelli di mio nonno, che han le toppe perché bucati. So che i deboli lui li frequenta, li racconta, li sostiene a modo suo ma la sensazione che sia una sua precisa scelta e non una “conditio sine qua non” diventa sempre più forte.

In questi giorni ho letto tanto, troppo forse, in occasione dell’anniversario della sua morte. Simbolo tra i simboli di quella “gauche caviar” che tanto mi sta sul cazzo. Idolatrato, portato ad esempio. Ho compreso, se ce ne fosse mai stato davvero bisogno, che quell’estate lì, quella delle non tette e di dediche inopportune (e dei Roxette), ho imparato a scindere l’ammirazione per l’artista dall’opinione sull’individuo.

Ho capito che io non sarei mai stata una tifosa a prescindere, di nulla e di nessuno. Ed è per questo che tra i mille “Grazie Faber” che ho letto, non ce n’è uno solo che mi abbia coinvolta.

Perché il mio di grazie è quello sempliciotto ed immediato di una bambina ed è rimasto lì, nel ’92, nell'esatto istante in cui ho afferrato che quest’uomo, questo borghese che reputavo insopportabile, beone e supponente, una cosa me l’aveva davvero insegnata: che si può amare tremendamente l’opera anche di chi non ci rispecchia e non ci aggrada e, soprattutto, che avrei messo l’amore sopra ogni cosa.