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MAKING MOVIESAL CINEMA
A teströl és a lélekrö (Corpo e anima)
Ildikò Enyedi
2017  (Movies Inspired)
DRAMMATICO
all MAKING MOVIES
16/01/2018
Ildikò Enyedi
A teströl és a lélekrö (Corpo e anima)
Quante probabilità ci sono che due persone che non hanno alcun contatto, sognino le stesse cose? Quale dimensione esistenziale, quali accadimenti portano due persone a trascorrere una notte insieme, con l’accordo di un distacco ravvicinato, solo per scoprire se faranno ancora lo stesso sogno?
di Ornella Genua/ Matteo Minelli

“We live inside a dream, but who is the dreamer?”

(Twin Peaks. The Return – 2017)

 

                                                                                                     

                                                                              “Gin a body/catch a body/comin through the rye”

                                                                                                                      (J. D. Salinger, The Catcher in the Rye -  1951)

 

                                                                                                                                                                                           

Perché sogniamo?

Due cervi, maschio e femmina si muovono in libertà attraverso boschi innevati.

Questa è la scena che ci introduce alla pellicola, vincitrice dell’Orso d’Oro all’ultimo Festival Internazionale del Cinema di Berlino, in modo immediato, ma è anche il sogno di due persone che pur senza conoscersi partecipano alla stessa visione onirica.

Possibile?

Sì, certo.

Il punto, però, verte su una questione più profonda, perché le due persone lavorano nello stesso luogo, un mattatoio. Un luogo apparentemente freddo, crudele e umanamente arido, ma nel quale non è possibile lavorare se non si prova il benché minimo dispiacere per questo genere di lavoro, come rimarca il direttore, durante un colloquio.

Il parallelismo tra esseri umani e animali che funge da asse portante della trama, da un certo punto di vista, potrebbe già di per sé costituire un più che bastevole campo d’indagine psicologica. Così come, in aggiunta, la figura del bosco, che ci porta a un grado superiore della narrazione, vale a dire un topos psicologico. Per di più viene chiamata in causa proprio la figura di una psicologa per effettuare specifici test (anche se piuttosto vani ed improbabili) in relazione ad un furto avvenuto all’interno del mattatoio. Ed è allora che l’abile tecnica registica permette di elaborare in sede di montaggio una perfetta alternanza tra immagini del sogno, realtà e racconto del sogno.

Se contempliamo l’ipotesi ampiamente trattata dalla letteratura, dal teatro, etc. che si viva dentro ad un sogno, potremmo rispondere alla domanda di David Lynch posta in esergo con ben due sognatori! Il regista di Missoula potrebbe trarre un certo godimento nel vedere questa pellicola, proprio lui che dell’atmosfera cupa dei boschi, della presenza dei gufi quale simbolo di un’alterità e dell’adombrarsi dell’oscurità sugli animi/animali umani ha fatto una cifra stilistica della sua produzione.

Qui, però, nel sogno siamo in chiaro, nel bianco ghiaccio di un gelo che ha tutta l’aria di essere anche interiore.

Primo sognatore: il direttore finanziario del mattatoio, uomo non più giovane che dal punto di vista sentimentale, dopo una serie di relazioni infruttuose, si mantiene in una posizione neutra, non va in cerca di nulla, pare bastare a sé stesso. Non è ben chiaro se e cosa attenda dalla vita, anzi probabilmente non si aspetta nulla di nuovo: è uno dei tanti ingranaggi che operano nel mattatoio e dalla sua posizione di direttore può osservare da una particolare angolazione le dinamiche dei rapporti lavorativi, anche se non riesce a coglierle nella loro totalità, quasi che la sua menomazione fisica, l’uso di un braccio solo, non gli consenta appunto di abbracciare interamente la realtà che lo circonda.

Secondo sognatore: Maria, neoassunta addetta al controllo qualità.

Un marziano calatosi in un mattatoio: non perché non sappia svolgere al meglio il suo lavoro, ma perché segue le regole anche fin troppo alla lettera. Non partecipa degli scambi tra colleghi, sembra non mostrare una particolare ricettività nei momenti di condivisione con gli altri (il pasto in mensa, ecc). Nel suo modo di interagire si ravvisano quasi i tratti dell’autismo. La donna è portata dal suo passato, che non ci viene spiegato - sappiamo solo che è in cura da un analista per bambini - a inscenare il teatrino della sua vita con dei pupazzetti sul tavolo della cucina ripetendo a memoria il copione della sua vita trascorsa (le conversazioni, i comportamenti cui ha assistito o preso parte durante la giornata lavorativa al mattatoio) e fa le prove dei dialoghi che vorrebbe si realizzassero. Vede la vita degli altri, cerca di capirne i gesti comuni ma è come se la non conoscenza dei codici di base del comportamento umano costituisse uno schermo che si frappone tra lei e la realtà circostante (svolge il proprio lavoro davanti a un computer, ma trascorre anche i momenti di pausa lavorativa fissando immobile quello stesso schermo; esita sempre davanti a una porta a vetri prima di entrare in un ambiente, con il risultato per lo spettatore di vedere oscillare la scena riflessa nel vetro della porta, ricevendone un senso di instabilità che riflette il disequilibrio interiore della donna).

Questo “schermo” genera lo scherno da parte di alcuni, ma suscita l’interesse del direttore, incuriosito da quella presenza insondabile. La scoperta da parte di entrambi di essere protagonisti dei medesimi sogni, dapprima provoca in loro turbamento, trattandosi di due estranei, quindi, proprio come avviene nello sviluppo del sogno, attraverso tentativi di avvicinamento che non sempre danno i risultati sperati, li porterà - non senza fatica - ad addomesticarsi.

La regista ungherese, arrivata a questo punto è molto abile nel non appiattire la narrazione su tinte banalmente romantiche, perché ciò non sarebbe funzionale alla marcia che lei intende imprimere alla storia.

La maturità e la sensibilità della regista richiamano in prima istanza un film di qualche decennio fa, “La mia notte con Maud” di Eric Rohmer, forse uno dei più grandi indagatori delle interazioni tra uomo e donna. Una notte, in cui un uomo dorme a casa di una donna divorziata, da cui si sente attratto, ma sceglie di restare fedele ai propri principi morali, sentendosi legato a un’altra; ma il simple twist of fate (citando un brano dell’album di Bob Dylan, “Blood on the tracks”, opera che vide la luce dopo il divorzio dalla moglie), lo porterà a scoprire che la donna che alla fine ha sposato, ebbe una relazione col marito della donna che lo ospitò a dormire. Il film è largamente incentrato sul calcolo delle probabilità: come questo peraltro.

Quante probabilità ci sono che due persone che non hanno alcun contatto (l’atteggiamento autistico di Maria, non lo consente), sognino le stesse cose? Quale dimensione esistenziale, quali accadimenti portano due persone a trascorrere una notte insieme, con l’accordo di un distacco ravvicinato, solo per scoprire se faranno ancora lo stesso sogno?

L’altro riferimento che viene in mente a questo punto del film è al libro di Kent Haruf, “Le nostre anime di notte”; quei due anziani, ciascuno con la propria storia, che si trovano la sera per dormire insieme, per parlare soltanto. Quelle due anime cui un imprevisto della vita si frappone a ostacolare il loro progetto, sono i padri e le madri tutelari dei due protagonisti del film, anche se questi ultimi non riescono a “scambiarsi” nessun tipo di esperienza: sembra che il sogno condiviso funzioni solo a distanza.

Abituato a dormire da solo, il direttore finanziario non riesce ad addormentarsi, così come Maria cui ha ceduto il letto.

Non a caso accennavamo al “sangue sulle tracce”: la regista dopo averci abituati alla compresenza del bianco/grigio e del rosso negli ambienti di lavoro costantemente sporcati (e ripuliti) dal sangue degli animali uccisi, contrappone al bianco candido della neve dei sogni il rosso vivo che gradualmente arriva a invadere copiosamente la scena.

“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato” (Haruki Murakami).

Forse fuori da quella tempesta, pensando al famoso campo di segale di salingeriana memoria, ci sarà qualcuno pronto a prenderti, proprio così come sei*, anche con tutti i tuoi limiti, per impedirti di cadere. Nel libro si alludeva all’uscita dall’infanzia con il protagonista che finiva col farsi aiutare da un “dottore dell’anima”; in questo film la rara probabilità che un imprevisto rimetta tutto in gioco e che accompagni a comprendere il dolore, accade. Se è vero che, come scriveva Shakespeare, siamo fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni (ne: “La Tempesta”, guarda caso), non per questo lasciamo che la nostra vita sia cinta di sonno. Sembra che il Bardo sia molto presente in questo film, in particolare modo nel finale (che non sveliamo): “Questi nostri attori erano spiriti, e tutti si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile come loro”. Corpo e anima, appunto.

Il sangue è stato ripulito.

Bianco.