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REVIEWSLE RECENSIONI
04/02/2018
Emel Mathlouthi
Ensen
Un disco di cui si può dire tutto e il contrario di tutto, che vive nella perfetta simbiosi degli opposti, che è opera seducente eppure, al contempo, complessa e multiforme, varia nei contenuti ma omogenea nella resa finale di un suono curato nei minimi dettagli

Qualche lettore attento avrà già incrociato il nome di Emel Mathlouthi lo scorso anno, quando questo incredibile disco venne distribuito in tutta Europa, tranne che in Italia. Da noi, e certe logiche faccio davvero fatica a comprenderle, Ensen è arrivato nei negozi, con abbondante ritardo, il 19 gennaio del 2018. Ci rendiamo conto, quindi, di essere fuori tempo massimo, e probabilmente, in altri casi, soprassederemmo dal proporre la recensione di un disco che, secondo i canoni attuali, è già vecchio. Tuttavia, Ensen, secondo lavoro della songwriter tunisina, è qualcosa di talmente speciale, che è quasi un dovere divulgarne la bellezza.

Il nome di Emel, nata a Tunisi trentasei anni fa, è iniziato a circolare durante la Rivoluzione dei Gelsomini, quando questa coraggiosa ragazza diede il proprio contributo alla causa con alcune canzoni di protesta (Klemti Horra su tutte), che coagularono e divulgarono il dissenso delle più giovani generazioni contro il regime di Ben Ali. Una militanza, quella di Emel, che le valse immediata fama (fu invitata a esibirsi alla consegna del premio Nobel per la pace, nel 2015) ma che, alla luce dei suoi testi, diretti e barricaderi, la spinse all’esilio verso New York, città dove oggi vive e lavora.

Da quei giorni tribolati, sono passati cinque anni, un periodo di tempo assai lungo, in cui Emel ha dato forma alla sua musica, ha viaggiato, ha intessuto collaborazioni importanti (Valgeir Sigurdsson, Johannes Berglund, e il nostro Simone Giuliani, che hanno collaborato fattivamente alla riuscita del disco), ha registrato in ben sette diversi paesi e, con la storica collaboratrice e amica, Amine Metani, ha prodotto le canzoni che compongono la scaletta di Ensen.

Un disco di cui si può dire tutto e il contrario di tutto, che vive nella perfetta simbiosi degli opposti, che è opera seducente eppure, al contempo, complessa e multiforme, varia nei contenuti ma omogenea nella resa finale di un suono curato nei minimi dettagli.

Ensen è un disco che spinge molto sull’elettronica, ma non è (solo) un disco di elettronica: l’utilizzo di ritmiche e strumenti tradizionali tunisini e il calore di certi passaggi melodici, levigati da arrangiamenti d’archi o cesellati da morbide note di pianoforte (l’iniziale Instant) fanno affiorare fra algidi samples palpiti di straordinaria umanità (la stessa evocata dal titolo dell’album: Ensen significa umano).

Non è nemmeno world music, etichetta utilizzata troppe volte per archiviare, un po' pigramente, dischi lontani dalla cultura e sensibilità occidentali: l’utilizzo della lingua araba e i richiami al folklore tunisino, infatti, seppur presenti, sono solo una delle componenti di un disco modernissimo, che potrebbe trovare come culla d’ispirazione Berlino, Vienna o, perché no, Londra.

Gli accordi in minore, alcuni passaggi lividi, i rimbombi industrial, le atmosfere notturne o certi beat ansiogeni, potrebbero ingenerare il sospetto di trovarci di fronte a una “dark lady in Tunisi”; il disco, però, pur nel suo mood prevalentemente crepuscolare, apre a barbagli di sole, e suggerisce colori, spezie e infiniti cieli stellati, ben visibili lassù, oltre il riverbero delle luci al neon.

Alcune melodie, poi, sono talmente uncinanti che si potrebbe parlare di pop (impossibile non essere concupiti dal ritornello di Ensen Dhaif o dal liquido dipanarsi di Kaddesh), se non fosse, però, che la struttura di queste undici canzoni (c’è anche una breve ghost track, interamente percussiva) è talmente imprevedibile e spiazzante da non consentire questa ulteriore generalizzazione (si ascolti l’incredibile Thamlaton, in cui il folk ritagliato da ipnotiche armonie tribali, vira poi in un inquietante crescendo, giocato sul contrappunto tra l’estensione della voce di Emel, che punta verso il cielo, e una selvaggia ritmica a vortice che spinge giù, verso l’oscurità).

Ensen è un disco che, per quanti sforzi si facciano, non si lascia etichettare, e francamente a nulla valgono paragoni con Bjork, Alicia Merz, Zola Jesus, Lana Del Rey e Lisa Gerrard, alcuni dei nomi che, estemporanei, affiorano durante l’ascolto, ma subito si disperdono tra le pieghe di una scaletta che respinge banali assimilazioni.

Ensen è un mondo a sé, entro i cui sfumati confini convivono questa straordinaria musicista, le sue canzoni trasversali e la curiosità dell’ascoltatore. Il quale, se saprà abbandonarsi alla seduzione dell’inusuale, potrà provare quel deragliamento emotivo che porta allo schianto del cuore. Che è poi, il godimento zenitale di tutti coloro che amano la musica sopra ogni cosa.