Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
29/07/2019
Far East Family Band
Nipponjin
Dove i venti freddi scendono lungo la valle dell’Amur, e ghiacciano appena la superficie del Grande Fiume Dormiente, sotto quei bagliori traslucenti che solo i Cieli del Nord possiedono...

On the edges of the earth

There a new and virgin land

I just want to feel it with my eyes

There a new and virgin land

Waiting in the Northern lights

l just want to feel everything

Mysteries a thousand puzzles — waiting there

I just want to see it for myself

 

...lì, all’ingresso celato della Terra Cava, il battesimo della Far East Family band assume definitivamente i contorni del rito; celebra una musica che pretende di essere omaggio ai piccolissimi eroi del pop occidentale e li trasforma invece in una cerimonia che trasuda di una spiritualità talmente intensa da sembrare parossistica quando va male, addirittura mistica nei momenti felici.

Fu negli studi Onkyo House a Tokyo che si incontrarono i figli di due generazioni maledette che sancirono nel sangue la scalata al Mondo; e ora sussurrano una preghiera per quel kamikaze che non si schiantò contro la portaerei nemica. Così è il supremo guru dell’elettronica kosmische, Klaus Schulze, ad accogliere questa raminga famiglia giapponese, già dispersa e ricostruita più volte allo sfaldarsi della comune rurale d’origine.

Sotto gli auspici della suprema label underground, la Vertigo, pareva che tutti gli elementi fossero finalmente allineati nella giusta costellazione per farne la collaborazione definitiva tra la scena spaziale tedesca e la lontanissima voglia di “rock” dell’arcipelago del Sol Levante.

In un 1975 in cui la musica anglosassone agonizzava sotto ciprie, parrucche e milioni spesi in eroina e prostitute, il Battista intona il suo canto dalle acque del Fiume delle Anime. È l’ennesima, trasfigurata parafrasi su Little Wing della Family; è la musica, la voce che vi aspettereste di sentire tra le montagne fluttuanti di Pandora. I flauti dei mille pellegrini Rifugiati di un Peter Hammill scomparso intonano El Condor Pasa, mentre Schulze organizza una stratificazione di mellotron in chiaroscuro. Quando la chitarra si abbandona, come stremata, tra tutte quelle ovvietà di un Gilmour prestato alla Fender di Blackmore, avrete già dimenticato il catalogo dei Pink Floyd, l’ultima raccolta dei King Crimson e le copertine pastello dei Genesis.

Nipponjin è il manifesto per l’Europa continentale della nuova onda di orfani rocker avanguardistici nipponici. Schulze ne ha tradotto l’atteggiamento spirituale, porgendo al leader della Famiglia, Fumio Miyashita, le chiavi del nuovo reame; adattando la dilatazione della melodia per palati più avvezzi alla sinfonia romantica, rivestendo bambineschi ritornelli con galassie, costellazioni intere di sintetizzatori e strati di bordoni elettrici.

Succede allora che l’umida foresta di sitar, biwa, liuti e shamisen di Nipponjin si trasporti in un luogo di metafisica consistenza. Klaus fa accomodare i vecchi Far Out sul quel Divano Occidentale-Orientale su cui si erano già adagiati, con una foto di (retro)copertina fantastica, gli Amon Düül della Tanz e la comune primordiale di Paradieswart Düül, felice nella semplicità dei panni colorati stesi al sole.

È lui l'officiante che rivela i Misteri di un lontano culto orientale, strappa il velo e svela tutto quanto: il bosco sacro, la sorgente d'acqua chiara, i sassi tra i pesci colorati della fontana. Limitando quanto possibile i rischi, serve il tutto al pubblico delle metropoli, ai pendolari della grigia metropolitana delle 17:23, ai fan che vogliono i concerti negli stadi.

Non nelle radure sulle anse del Grande Fiume Dormiente.

E allora le parti più melodiche del non-misurabile brano d'apertura sfiorano la colonna sonora di un manga spaziale per esuli del Paradiso Scomparso; poi la chitarra di un incallito fan di Gilmour drappeggia blues troposferici che sarebbero fior di mainstream rockettaro dovunque, anche sparsi nei momenti quieti di qualche Robin Trower. Dovunque, ma non nel regno elettronico di Klaus, che mai abbandona la Nave Madre. La colonna sonora della ricerca di un mondo sconosciuto oltre le nebbie e i ghiacci artici.

L'altra faccia del lato A è l'affresco rupestre nella "grotta" platonica in cui il gruppo voleva vivesse una razza iper-umana, evoluta e perfetta. The Cave, una non-canzone che si apre come fossero di scena i Vanilla Fudge di Some Velvet Morning, prima di rientrare nei solidi binari della visione teutonica di un prog espanso, fruibile, addirittura lineare nell'esplorare ogni stratificazione sintetica possibile. Galassie pulsanti traslocate nel cuore della terra. È il brano per cui potreste pensare di trovarvi di fronte ad una versione per Iniziati di The Dark Side of the Moon, con Schulze nei panni di Alan Parson.

Poi c'è il tentativo di frantumazione del lato B, una geografia immaginaria che traccia confini di lande da favola battute da venti di steppa e neve assolata. I flauti evocano costantemente una melodia di stirpe  nomade, vagante, dispersa. Strani Dei si rincorrono, tra Atlantide, Lemuria e Alderaan.

Su questa arca spaziale si imbarcano tutte le suggestioni frantumate e rimontate nella mente di musicisti cresciuti con l'eco di Elvis e Beatles fissato come un chiodo nella testa. Allora ecco i Moody Blues, ecco i Genesis e i Van Der Graaf. Ecco una copertina di bieca New Age, poi subito riciclata dagli Eloy di Down, incorniciata in qualche glifo pseudo-orientale, che traslittera Nihonjin in Nipponjin, che traduce in inglese tutti i vecchi testi giapponesi per fare capire a tutti, tutti gli altri, che, sì, in fondo quella è musica d'oriente trapiantata nelle terre del Capitalismo.

Non l'elegia degli Eremiti Bambini sull'isola di Mu.

Peccato, perché alla fine questa traduzione rinuncia allo spaesamento meraviglioso e ingenuissimo di The Cave down to the Earth per traghettare, verso il ben noto e reazionario “progressive”, una musica che avrebbe dovuto avere solo nei suoni della Natura la sua vera origine e ragione d'essere.

È più facile per noi, e ne siamo ben contenti; almeno finché non è chiaro ciò a cui abbiamo rinunciato per facilitarci la vita e la critica.

Non è molto, in verità; come un'innocenza smarrita non per colpa ma per necessità. Un tempo che scorre sempre troppo veloce, almeno al di fuori di un disco che, come dettava la Regola Cosmica, è vano tentativo di sospensione ritmica.

Al ritorno su River of Soul, il Battista è ancora là.

Richiama i fedeli come in un sogno dai riflessi di cristallo, immerso nelle acque fredde che furono la neve di un inverno lontano.