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REVIEWSLE RECENSIONI
28/02/2018
Geowulf
Great Big Blue
...finché ci sarà una band che ti inonda di bellezza con canzoni da tre minuti e ritornelli indimenticabili, il mondo sarà sempre un posto più bello di quello che potremmo avere in mente noi.

Il Pop tira sempre, non è una novità. Qualunque sia la declinazione in cui viene proposto, ci siano chitarre ruvide e rumori di sottofondo, l’elettronica o le chitarre acustiche, il Jingle Jangle e mille altre soluzioni stilistiche, finché ci sarà una band che ti inonda di bellezza con canzoni da tre minuti e ritornelli indimenticabili, il mondo sarà sempre un posto più bello di quello che potremmo avere in mente noi.

Ecco perché i Geowulf, ultimi arrivati in un calderone sempre più numeroso, caotico ma senza dubbio interessante, sono da ascoltare.

Star Kendrick e Toma Banjanin sono australiani ma vivono a Londra da tempo. Per la verità è solo quest’ultimo a risiedere stabilmente nella capitale inglese. Star si è sempre divisa tra mille posti diversi, tanto che registrare il disco è stato parecchio complicato, a sentire loro.

La band sono loro due e sono l’unione della voce della Kendrick con i ricami chitarristici di Banjanin. Una coppia ben assortita, due individualità che si compenetrano perfettamente e anche piuttosto fotogenici, almeno a giudicare dalle immagini promozionali che hanno diffuso.

“Great Big Blue”, il loro disco di debutto, è uscito da poche settimane ma il singolo “Saltwater” girava in rete già dallo scorso anno, ricevendo da più parti recensioni entusiastiche.

La copertina che li ritrae a mollo in un’acqua cristallina che potrebbe essere quella del mare così come quella di una piscina, è in verità abbastanza ingannevole: c’è poco di estivo e di spensierato, nella loro musica. Certo, le melodie sognanti, a tratti anche zuccherose, le vocal soffuse ed ipnotiche di Star, potrebbero anche darci la tentazione di essere trasportati su un’isola deserta, a crogiolarci al sole e a fare qualche nuotata rilassante.

Se ci si immerge a fondo nella loro musica però, viene fuori anche qualcosa di inquietante, di malinconico, di vagamente oscuro. Sarà il romanticismo amaro dei testi, che mettono di fronte alla fragilità delle relazioni amorose, alla difficoltà di essere fedeli, all’impossibilità di trovare risposte certe nel rapporto con l’altra persona; o sarà che le melodie che escono dalla chitarra di Toma ci parlano spesso di assenze agrodolci e difficili da colmare. Sta di fatto che questo suona come un disco triste, per quanto non sia ammantato di questo tipo di immaginario.

I due hanno i Beach House come principali punti di riferimento ma si sentono anche i Cocteau Twins della fase più Pop, oltre che gli Slowdive nella loro declinazione più immediata (periodo “Souvlaki” o giù di lì).

Brani di facile presa, costruiti benissimo, con un gran lavoro chitarristico e le tastiere che non sono mai sovrabbondanti e hanno il compito di riempire i vuoti laddove è necessario. Qua e là si intravede un po’ di Folk (per esempio nella conclusiva “Work in Progress”) ma il lavoro si presenta più o meno equamente diviso tra episodi Dream (l’opener “Sunday”, il già noto singolo “Saltwater”, “Hideaway”, “Only High”) e altri più tipicamente Catchy e di facile presa (“Greatest Fool” ma soprattutto “Don’t Talk About You” e “Drink Too Much”).

È questa seconda declinazione che, a mio parere, potrebbe portare molto in alto la band, se decidesse di proseguire così. Il talento di Toma per le melodie è davvero notevole e i tre brani citati hanno tutti gli ingredienti per diventare dei classici del genere.

Non tutto, purtroppo, rimane su questi livelli ma l’impressione generale è quella di una grande solidità, di un discorso conciso e senza punti morti. Certo, devo confessare che, dopo l’entusiasmo dei primi ascolti, il successivo approfondimento ha un po’ raffreddato le mie sensazioni iniziali, tanto da dare in parte ragione a chi aveva definito il disco “leggerino”.

Non è comunque un grosso problema: senza dubbio non siamo al cospetto di una band già pronta per cambiare le sorti della musica e non è neppure questo quel che chiediamo a loro di fare. Semplicemente, “Great Big Blue” è un lavoro piacevolissimo che oltre a mostrare lo stato di salute di un genere che, nonostante l’alternarsi dei decenni e dei generi di riferimento, sembra non passare mai di moda, ci introduce ad una band che se tutto andrà bene potrebbe anche essere qui per restare. In attesa di vederli dal vivo.