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REVIEWSLE RECENSIONI
02/04/2018
Baustelle
L'amore e La Violenza Vol.2
L’impressione è che questo secondo volume, pur assecondando uno slancio creativo spontaneo, non sia riuscito a completare e ad arricchire il materiale dello scorso anno

All’origine di questo disco c’è un antefatto, almeno per il sottoscritto. Ero a Torino per una delle prime date del tour de “L’amore e la violenza” e durante i bis, come in tutte le altre sere, venne suonata “Veronica n.2”. Io non la conoscevo ma la gente delle prime file la cantava parola per parola, tanto che la liquidai senza troppi problemi come un’outtake o una bside di varia provenienza (non sono così dentro il repertorio della band toscana da conoscerne anche questi risvolti). Pochi mesi fa, la scoperta che si trattava di un brano nuovo, anticipazione di quello che adesso è diventato “L’amore e la violenza Vol. 2”.

La decisione di pubblicare un altro lavoro, tematicamente collegato al precedente, ad un anno esatto di distanza, aveva stupito un po’ tutti: per carità, non è una cosa nuova (gli ultimi a farlo, da noi, sono stati i Verdena) ma normalmente queste operazioni vengono pianificate e annunciate in anticipo e in questo caso nessuno ci aveva avvisato che il ritorno dei Baustelle sulle scene, a tre anni dal controverso “Fantasma”, sarebbe stato diviso in due parti.

In una recente intervista, Francesco Bianconi ha svelato l’arcano: alcuni brani erano rimasti fuori dalla tracklist del primo volume mentre altri sono stati composti in tour, cosa inusuale per il terzetto. Da qui, una volta osservato l’entusiasmo che queste inedite session hanno suscitato, la decisione di tornare in studio e far uscire subito nuovo materiale.

La cosa mi ha fatto piacere: dopo “Amen” la band si era un po’ persa via, per quanto mi riguarda. L’aver raggiunto l’apice compositivo e narrativo di un percorso fino a quel momento fortunato, innovativo e coerente, aveva aperto la strada ad un lavoro di ricerca che si era presto caricato di pretenziosità.

“L’amore e la violenza”, quasi a sorpresa, ci ha restituito un gruppo che ha deciso, senza troppe cerimonie, di tornare alle origini, ai sintetizzatori e ai pezzi da tre minuti dal tono caustico e coi ritornelli memorabili.

Mi sarei dunque atteso un lavoro sulla stessa falsariga del primo volume e allo stesso livello di ispirazione ma sono stato smentito, nell’uno e nell’altro caso.

Checché ne dicano loro, la direzione qui è piuttosto diversa. Il filo conduttore rimane quello, le atmosfere da colonna sonora, un po’ Pulp, un po’ Poliziesco anni ’70, sono già ben presenti nell’introduzione strumentale (per la verità piuttosto inutile e prolissa) e “Veronica n.2”, che arriva subito dopo, ripercorre le strade da poco battute, con il suo Pop facile e le sue armonie in stile Pulp (la band, questa volta).

Le differenze però si notano: laddove il primo lavorava molto di più sul digitale, era sintetico nell’esposizione e possedeva quel tono irriverente e dissacrante che ci aveva fatto così tanto amare i loro primi lavori, questo utilizza parecchio l’analogico (le orchestrazioni fanno gran parte del lavoro di arrangiamento, così come le chitarre elettriche molto presenti) ed è tornato ad essere in qualche modo “cantautorale” nella scrittura, pur senza rinunciare all’approccio leggero e decadente che è ormai il loro marchio di fabbrica.

È un disco che parte bene, dopo la fase interlocutoria dello strumentale, infilando in successione tre brani notevoli: oltre al singolo già citato, funzionano bene anche “Lei malgrado te” e soprattutto “Jesse James e Billy Kid”, con Francesco e Rachele che si lavorano una linea vocale che scava nel cervello.

Proseguendo, si avverte tuttavia una certa prevedibilità: “A proposito di lei” e “Baby” sono esercizi di stile gradevoli ma effimeri, che nel loro scorrere leggeri e inoffensivi ci mettono davanti ad una verità che il disco precedente ci aveva giustamente fatto dimenticare: questa band ha 20 anni di carriera alle spalle; hanno il loro vissuto, la loro estetica, il loro immaginario; quanto davvero è lecito sperare che continuino a sorprenderci e a risultare stimolanti?

Purtroppo, a questo giro paiono tornati ad essere prolissi: “Caraibi” è lenta e sfilacciata e annoia non poco mentre “L’amore è negativo” è un concentrato di luoghi comuni “bianconiani” e sposa l’universale della politica col personale dell’amore in maniera questa volta scontata e priva di sussulti (citare Weimar e Auschwitz è un espediente che qui ho trovato scontato). Oltretutto, l’inserimento di un’altra traccia strumentale (quella “Musica elettronica” che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere la gemella della parte “sinfonica” del primo disco ma che non ce la fa ad attestarsi sullo stesso livello) non aiuta nella fruibilità di un lavoro che dura parecchio di più di quel che sarebbe risultato necessario.

È comunque apprezzabile qualche accenno di nuove soluzioni: se “Tazebao”, col suo violento assalto chitarristico, è davvero poca roba e viene solo parzialmente salvata dall’interpretazione di Rachele, la conclusiva “Il minotauro di Borges” è invece apprezzabile soprattutto per la sua lunga coda elettronica, dove emergono reminiscenze Goblin (giusto per rimanere in tema Soundtrack) e dove sembrerebbe trovarsi il senso stesso del disco.

Ve lo ricordate “Il labirinto di Asterione”? Quel racconto dello scrittore argentino, uno dei suoi più celebri, in cui il Minotauro parlava in prima persona e diceva di voler morire, di aspettare Teseo, il suo uccisore, come si aspetta un amante, un liberatore? Ed eccoli qui, l’amore e la violenza, fusi insieme in quest’ultimo tassello, dove amare vuol dire uccidere e dove anche una creatura mostruosa si chiede quale senso abbia avuto la sua vita, se non sia la sua morte anche il supremo atto d’amore per il destino che l’ha fatta esistere.

È un disco, per loro stessa ammissione, più personale del primo e infatti le difficoltà e i paradossi delle relazioni si prendono quasi tutto lo spazio disponibile, raccontati col solito linguaggio crudo e prosaico a cui Bianconi ci ha abituato (da questo punto di vista, “Perdere Giovanna” è un altro di quei brani che funziona bene, dal vivo sarà sicuramente un bel momento).

Arriviamo alla fine stanchi e non perfettamente appagati. L’impressione è che questo secondo volume, pur assecondando uno slancio creativo spontaneo, non sia riuscito a completare e ad arricchire il materiale dello scorso anno. Abbiamo qui i Baustelle come un team collaudato di autori, come bravissimi performer ma che rischiano forse di darsi troppo per scontati. Speriamo non sia così perché quando si imbocca la strada del manierismo poi diventa dura uscirne…