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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
04/07/2018
Dead Cat In A Bag
Con Luca “Swanz” Andriolo, tra bambole tristi e fiori impazziti
Da qualche tempo lascio girare sul piatto un disco che parla con il linguaggio di quel preciso mood americano fatto di ruggine, cocci rotti, disordine, ferri vecchi, fornelli imbrattati e qualche stracciata melodia inzuppata come si deve di follia estetica e whiskey di qualunque stagione.

Da qualche tempo lascio girare sul piatto un disco che parla con il linguaggio di quel preciso mood americano fatto di ruggine, cocci rotti, disordine, ferri vecchi, fornelli imbrattati e qualche stracciata melodia inzuppata come si deve di follia estetica e whiskey di qualunque stagione. Soltanto dalle caverne provengono certi dischi… e nelle caverne ci restano purtroppo. Fin quando arrivò poi Tom Waits a rendere famose quelle forme estetiche tanto che ad un tratto sono quasi divenute di moda. Anzi oggi diremmo alla Tom Waits omologando il tutto con una saccente ignoranza non appena la voce si scurisce, i suoni sono spigolosi e un contrabbasso rimbalza come un ubriaco. Dunque, vi consiglio l’ascolto di “Gris Gris” a firma di Dr. John The Night Tripper, un disco del ’68. Ma ora, qui riuniti tutti, perché sulle prime qualcuno potrebbe tornare con la mente a quel mood ma lo scenario si fa diverso, decisamente “più dolce”, meno dissoluzione umana ma più riflessione spirituale, di sé e del proprio divenire. Ci sono pensieri multiformi di dialoghi diversi, ci sono archi ed elettronica e alla fine, pensando di omologare il tutto, non ci allontaniamo troppo dal whiskey consumato ma neanche restiamo vicini alla riva. Anzi in alcuni momenti se non prestiamo attenzione rischiamo di perderne il contatto.

Fine del delirio.

Punto e a capo.

Swanz, ovvero Luca Andriolo, voce portante dei Dead Cat In A Bag, per prima cosa sforna il suo primo lavoro personale sotto l’effige di Swanz The Lonely Cat dal titolo “Covers On My Bed, Stones In My Pillow” in cui raccoglie da vero apolide, un po’ alcolico e un po’ fumoso di bettola, brani determinanti nella sua genesi musicale, cultura in background che semina e che della semina si insemina a sua volta. Ritroviamo classici e meno noti, ritroviamo Hank Williams e Buddy Holly, ma anche Joy Division, Elvis, Kris Kristofferson, John Cale, immancabilmente dovevano esserci le tinte scure di Nick Cave e le giostre ubriache di Tom Waits, altrettanto ineluttabile ritroviamo il blues eterno di Washington Phillips e... compagnia cantando che in certi casi la compagnia è inevitabilmente lunga.

Ma è tempo anche (e soprattutto) di nuove grandi scritture e con ciò tiriamo fuori il nuovo disco dei Dead Cat In A Bag dal titolo figurativo e acido di simboli: “Sad Dolls and Furious Flowers”. Incontro e rivoluzione tra gitani armati di punzoni e vecchi talismani, pittori imbevuti di pece e romantici suonatori di violini, tra i fumi di scarico e le puzze del porto. Da lavori simili, che in Italia sembrano davvero esserci finiti per sbaglio, non puoi che portare a casa dipinti fatti a mano di scene e di sceneggiati: l’America dei migranti nei vicoli, i romantici dipinti in un addio a china, la polvere di ruggine che cade sull’amore che credevamo eterno, dalla cantinaccia arrivano strani rumori, nel boccale di birra cade una mosca e da una finestra imbrattata si vede appena qualcuno di dentro. Luce di candela. Cenere di sigaretta e qualche altra x sul calendario delle avventure di letto. Tanto di cappello ad un immaginario che non rivoluziona né trasgredisce i soliti cliché ma ce li rivende pieni di spiritualità, pieni di decisa personalità. Un saluto agli amanti delle etichette, le odiose etichette… anche se poi è da quelle che, provocandolo un poco, sono partito. Tanto di cappello ad uno degli ascolti italiani più internazionali ed interessanti degli ultimi mesi. C’è finalmente tutto quel concentrato umano per iniziare un’intervista e non volerla finire mai più…

 

Lasciami partire da una citazione di stile che rivedo nella tua voce, nella tua pelle e nelle tue corde. Che mi dici di Tom Waits o di Cohen? 

In verità ogni volta che citano Waits a proposito del mio lavoro io resto un poco stupito, anche se la cosa è molto lusinghiera. Perché, benché abbia molti discepoli e anche qualche imitatore, la sua vocalità è talmente stilizzata da essere unica… All’inizio, dopo gli esordi con voce alta e pulita, diciamo dal terzo disco in poi, pareva un po’ Armstrong (su un pianismo alla Randy Newman), con tanto di pronuncia negroide delle zeta, e io non sembro affatto Satchmo; più tardi quando la musica s’è fatta più espressionista ha preso ad assomigliare a Captain Beefheart… e io non sembro affatto il vecchio Capitano! Questo per dire che Mr. Waits non ha l’esclusiva sulla raucedine e anche per stabilire un’estetica del suo cantato, più che del mio, talvolta portato ad eccessi di growl da fare invidia a un metallaro. Usava bene quel tipo di arrochito il cantante dei Corman & Tuscadu… io non ce l’ho: i miei personaggi sono più dolenti che fieri, nel mio timbro ci sono più lacrime che tabacco (insieme ai doni del riflusso gastroesofageo, anche se sarebbe bello dire che è il whiskey). Il complimento più bello che mi hanno fatto è stato: Bonnie Prince Billy abbassato di un’ottava. Quanto a Cohen, è impossibile non subirne l’influenza, se si scrivono canzoni. È sempre stato irripetibile, enorme, anche prima che la voce gli si riducesse a un’ottava scarsa. Eppure, il modo di gestire ironia, sarcasmo e dolcezza, di pronunciare ogni singola sillaba, anche su melodie che non sforano l’estensione di una quinta… lo rendono uno dei più grandi cantanti della storia, per me. Ma la cosa è tutt’una con la sua scrittura. Venderei l’anima per saper scrivere e cantare anche solo una strofa come lui. Comunque, tra le influenze io voglio sempre citare Cash, il Cale più teatrale e nel folk anche Greg Brown, oltre a Kris Kristofferson. Ma dirò di più: pure Springsteen, anche se magari quello più dylaniano… E poi gente con voce diversa ma spirito affine, come Vic Chesnutt, Willie DeVille, lo stesso inevitabile Dylan!

Lasciamo perdere le etichette che danno solo da mangiare ai pettegolezzi. Ti chiedo invece di tutto questo ferro arrugginito che hai lasciato a macerare sotto al sole, appena fuori la Roulotte dove vivi. Fa caldo. Ci sono i serpenti per strada. Queste sono le immagini che mi regali. Ti ci rivedi? Me ne parli? Per restare nella metafora e chiederti del luogo migliore per te e la tua musica, allora dicci, dove hai parcheggiato la Roulotte? 

La mia personale roulotte è parcheggiata per forza, perché io non guido. Sono molto nomade con la musica, ma anche stanziale per forza di cose. Il mio disco solista è davvero casalingo, registrato in salotto e in camera da letto. C’è legno ovunque, animali impagliati e disordine da scapolo. Il viaggio di Covers & Stones è quasi tutto interiore: sono le canzoni della mia vita, o anche solo quelle che mi venivano meglio, cantate per certi versi a me stesso. Sono delle istantanee, di momenti magari non felicissimi, mentre il lavoro coi Dead Cat In A Bag è sempre molto più complesso e studiato in ogni dettaglio. Il paesaggio, fuori, secondo me è abbastanza nordico. La copertina, che pare americanissima, raffigura una casetta in legno che ho fotografato vicino a Oslo, una volta che ero lì per fare uno spettacolo teatrale.

Secondo te come si può arrivare ad un simile immaginario venendo da una terra italiana così fortemente radicata alla canzone melodica, al pop e alla televisione? Insomma: cosa c’è che ti spinge a nasconderti in questi territori sonori?

Ho sempre avuto ascolti di quel tipo. Folk, cantautorato, poca tv e quasi niente pop, col rischio di diventare anche un po’ snob. Quello che molti ora chiamano Tex Mex ha poco a che fare con la vera musica di quei luoghi (che è più melensa e di derivazione mariachi), quanto con Morricone… che è italiano! La musica non ha bisogno di passaporto, a quanto pare. Come i sogni.

Direi che da questo disco è impossibile non chiederti due cose: da Elvis ad Hank Williams passando per Hendrix, come hai scelto le canzoni? 

Semplice affezione. Brani necessari. In verità Hendrix credo di averlo aggirato: la versione di base di “Watchtower” è quella dell’unplugged dello stesso Dylan… e poi è diventata qualcosa di punk, però suonata solo con il banjo (di tutte le dimensioni: dal long-neck al banjolin!) e con grida finali che riportano un po’ di apocalisse… è il brano più simile alla musica della mia band, anche se i musicisti ospiti, che sono Thomas Guiducci e Roberto Necco, vengono da un’altra esperienza. Il disco solista è stato tremendamente liberatorio. Anche vocalmente, ho recitato di meno e cantato molto di più, per tentare di restituire le melodie. Tranne che “Love Me Tender”: lì siamo in una scena da film, con un maniaco che chiama nel cuore della notte… e in fondo, poi, vuole essere amato.

In italiano? Hai mai provato a vestire questa musica con un testo in italiano? 

Ho in serbo canzoni in italiano, ma non le canterò io. Le cover sono nella lingua originale, mentre il lavoro coi Dead Cat, più che esterofilo, è internazionale. Usciamo con un’etichetta straniera, cantiamo in inglese, francese e spagnolo… un po’ come le musiche e gli strumenti: non abbiamo molta attinenza con il luogo geografico in cui abitiamo. Meno che mai in epoca di itpop.

Vorrei farti una domanda un po’ marzulliana: intimità, psichedelia visionaria analogica, un gipsy rivisto e corretto di rum e di cenere di sigaretta. C’è anche tanto silenzio in questo disco. Come a mettere un freno alla corsa quotidiana. In tutto questo ti stai cercando o ti sta rifugiando? 

Il disco è nato in un momento biograficamente complicato (ma è una costante: mi sa che la vita sia proprio sempre e solo così) e durante la lunga attesa di ultimare “Sad Dolls And Furious Flowers” dei Dead Cat, che è un lavoro stratificato, orchestrale, terribilmente ambizioso. Era un po’ uno sfogo personale, un omaggio, un confronto a distanza con canzoni impossibili da rovinare. Poi sono tornato al lavoro sul nostro disco e devo dire che sono soddisfatto di entrambi gli album.

E ora veniamo ai Dead Cat In A Bag. Un terzo disco dal quale escono alcuni grandi particolari che rapiscono la mia attenzione. Il primo è la quantità di dialogo musicale, la diversità di strumenti e i contributi che questi apportano. Dunque, non una scrittura ferma sulle vostre potenzialità ma un disco ampio di collaborazioni e contributi, non è così? 

Credo che sia la conclusione di una sorta di trilogia, che va da “Lost Bags”, più vario ma anche denso d’omaggi, al personale ma un po’ lugubre “Late For A Song” (va detto che durante la registrazione son successe cose molto brutte a livello personale, ma comunque io lo volevo così fin dall’inizio: fiori secchi e ruote dentate). Qui c’è apertura orchestrale, molti musicisti, tantissimi sapori diversi. È stato liberatorio, ma anche delicato.

Il jazz, il noir e quel gusto messicano che forse è l’ultimo degli scenari che mi verrebbe da associare alla vostra musica. Eppure, momenti come quelli di “Not a Promise” sono determinanti. Possiamo dire che è uno scenario “nuovo” per la vostra scrittura? Le virgolette sono d’obbligo ovviamente… 

Sono cose che ci sono sempre state, ma latenti. Abbiamo sempre viaggiato tra Francia e Germania, America e Messico, Balcani e… sì, anche Italia. Questa volta abbiamo solo radicalizzato il tutto, con tanto di canzoni in francese e spagnolo. Un viaggio in tutto il mondo. Sempre all’imbrunire o sul fare del giorno. La notte, credo, sta tutta nei testi. A volte fa anche paura.

Dal vivo tutto questo suono e tutti questi dipinti come vivono? Il trio diventa…? 

Un trio d’assalto! L’esperienza live è indescrivibile. Cambiamo un sacco di strumenti. Sudiamo moltissimo. Passiamo dall’acustico all’elettrico, all’elettronico. E gestiamo tutto come uno spettacolo di teatro-canzone, con tanto di oggetti di scena. Sono molto contento del nuovo assetto live.

Bambole tristi e fiori furiosi. Come si legano queste cose tra loro e come poi dialogano con la vita di tutti i giorni? 

Rappresentano la bellezza. Che non è vero che ci salverà. Anzi, probabilmente ci farà dannare come il viso amato di qualcuno che non vedremo mai più. È tutto struggimento, nostalgia, desiderio, impotenza, rabbia… eppure c’è qualcosa di vitale, di indomabile, di irrinunciabile. Le bambole sono belle, con la loro tristezza incurabile. I fiori durano poco, ma avvampano come in un quadro fiammingo. È un amore impossibile. Ma non per questo è meno amore. Alla fine, non c’è vero nichilismo in tutto il disco, anche se non manca una certa cupezza. C’è la paura, l’illusione, la disillusione. Si parla delle promesse che non possono essere mantenute. Si parla del panico e delle zone oscure, dentro e fuori, che vanno affrontate, ma in cui ci si perde. Si parla dell’amore mal riposto. Qualcuno ha ravvisato uno spirito maudit, ma io questo lo rinnego. Non c’è una debauchery, non c’è l’atteggiamento nottambulo ed ebbro, per tornare anche al Waits della prima domanda. C’è piuttosto l’ora del lupo, l’introspezione, il senso di urgenza e di spreco, ma nessuna vita dei bassifondi e se ci fosse compiacimento, sarebbe comunque di un altro stile. E poi la bellezza, appunto.

Ma in fondo, in questo scenario che sembra post-atomico degli anni ’50, oltre alla nostalgia e ad una visione noir e scura, esiste la speranza e la luce del giorno? 

Esiste, ma non dobbiamo fare la fotosintesi, perciò non so se aiuti. Gli scheletri messicani che cavalcano al sole, nell’ultima canzone, portano a dire che quando non siamo spaventati a morte, alla fine è persino divertente. Per il resto, la luce più certa per tutti è quella del lumino sulla lapide. Per questo le bambole son tristi.