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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
23/08/2018
The Rolling Stones
Exile On Main St.
Anche a voler considerare "Exile" un gradino sotto ai celebrati Sticky Fingers e Let it Bleed, è pressoché impossibile non riconoscergli però un fascino maledetto e bohemien che manca invece ai succitati capolavori.

"Exile" è sicuramente uno dei dischi più chiacchierati della corposa discografia degli Stones: da un lato, c'è chi lo considera uno dei vertici della produzione della premiata ditta Jagger - Richards che, finalmente lontana dal mainstream (main street, nello specifico ), ha saputo dar vita a un album ruvido, scarno, diretto e mai così sincero; dall'altro, invece, chi, enfatizzandone il suono grezzo e la mancanza di hit, non completamente a torto, lo considera un'opera minore. Di sicuro, comunque la si voglia vedere, questo disco del 1972, registrato nell'esilio dorato della Costa Azzurra, resta un unicum nella produzione artistica degli Stones, sia per la stessa genesi dell'opera, sia in considerazione di un suono e un approccio alla composizione che non avrà in seguito più eguali. Anche a voler considerare "Exile" un gradino sotto ai celebrati Sticky Fingers e Let it Bleed, è pressoché impossibile non riconoscergli però un fascino maledetto e bohemien che manca invece ai succitati capolavori.

I Rolling Stones sono all'apice del successo e della carriera (l'anno precedente è uscito Sticky Finger), e proprio per questo sono vessati dal fisco inglese e perseguitati dalla stampa tutta, che li tiene sotto la lente d’ingrandimento e non perde occasione di pungolarli con articoli non sempre benevoli. La band decide, pertanto, di trasferirsi in Francia, dove la pressione fiscale è meno persecutoria che in patria.

Richards affitta a Nellcote una villa con sedici stanze e spiaggia privata che, durante l'occupazione tedesca, era stata un quartiere generale nazista. Gli altri vanno a vivere lì vicino, ma si ritrovano spesso a casa Richards, eletta a quartier generale, per comporre e suonare.

Peraltro, in questo periodo, non regna nemmeno una gran armonia fra i due leader del gruppo: se da un lato, infatti, Jagger sta cercando di mettere la testa a posto e astenersi dagli eccessi tossici ed etilisti del chitarrista, Richards, dal canto suo, è probabilmente all'apice della dissolutezza, e con la compagna del momento, Anita Pallemberg, non si risparmia festini a base di alcol ed eroina.

Alcune canzoni sono già pronte, altre vengono composte proprio in quei mesi. Come studio di registrazione, viene allestita la cantina della villa, buia, umida e opprimente, un mix di disagi che finisce per segnare irrimediabilmente la performance della band. Il caldo torrido e le intense sudate che ne conseguono durante le registrazioni, fanno propendere per un ironico titolo provvisorio: "Tropical  Disease".

Richards, nonostante gli eccessi e il tenore libertino delle suo giornate, sta sul pezzo come mai, e impone agli altri interminabili sessioni di registrazioni per ottenere il miglior risultato possibile (anche se in futuro gli stessi Stones bolleranno come pessime la resa sonora e la fase di mixaggio dell'album).

Fuori da quella villa, il mare, il sole e un clima decisamente benevolo rispetto a quello più cupo e umido che si respira a Londra, sono gli ulteriori elementi che compongono il quadro in cui nasce Exile e le diciotto canzoni che lo compongono: spirito bohemien, la sensazione di vivere in un contesto per certi versi magico, l'abuso di droghe e alcol di Richards, i più miti propositi di Jagger, la presa di coscienza di una libertà creativa finalmente senza condizionamenti, ritmi di lavoro forsennati, il senso di claustrofobia per ore passate nello scantinato, quando fuori il clima mite e il cielo azzurro indurrebbero all’ozio.

Nasce così un disco a tratti sfilacciato e cupo, composto da una musica sudata, anfetaminica e in surplus di tossine, ma mai tanto diretta e immediata, che miscela blues caracollanti e naive con rockacci inquinati da scorie di gospel, soul e country. Il risultato è estremamente eterogeneo, eppure stranamente compatto, come se le canzoni fossero legate da un filo vitale e non potessero prescindere l'una dall'altra. Mancano hit da classifica, perché a parte Tumbling Dice (primo singolo estratto dall'album), sono pochissime le apparizioni di brani da Exile nelle scalette dei concerti, ma le canzoni bellissime sono tante e il loro fascino, dopo più di quarantacinque anni, resta inalterato. Grazie anche a un pugno di sessionisti di grandissimo spessore, tra i quali spicca l'immenso Nicky Hopkins, già al pianoforte in alcuni dei precedenti (e anche futuri) lavori della band.

Dal micidiale incipit di Rocks Off , alla strepitosa cover di Shake Your Hips di  Slim Harpo, alla luminosa Shine a Light, che darà il titolo al film di Scorsese del 2008, fino al ritmo strascicato di Ventilator Blues, che per la prima volta porta la firma anche di Taylor, c'è di che spellarsi le mani dagli applausi.

La versione deluxe dell'album, uscita a maggio 2010, contiene anche dieci inediti, alcuni davvero imperdibili. Oltre a due alternative takes di Soul Survivor e Loving Cup, meritano una citazione il r'n'b sensualissimo di Pass the Wine (Sofia Loren) e il ballatone Following the River, roba da groppo alla gola e fazzoletto alla mano.

Di Exile si è già detto tutto e il contrario di tutto, e i giudizi della critica non sono certo univoci. Sicuramente, resta un'opera sui generis e per certi versi memorabile, figlia di un periodo particolare della carriera degli Stones, in cui l'esilio portò i componenti della band a essere, per la prima volta nella loro strepitosa carriera, rockers a tutto tondo e non solo acclamate rockstars.