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REVIEWSLE RECENSIONI
28/08/2018
Alice In Chains
Rainier Fog
Rainier Fog è un disco riuscito ed emozionante, e per quanto ostico (o magari proprio per questo), ci dimostra che forse il grunge non è del tutto morto, se a suonarlo è una band come gli Alice in Chains

Dalla scena di Seattle, a inizio anni ’90, uscirono band strepitose, ognuna delle quali declamava a modo suo il verbo unico dell’edonismo al contrario della generazione X. Se i Nirvana rimescolavano il grunge con geniali intuizioni pop, se i Mudhoney ne rappresentavano l’ala più punk e i Pearl Jam quella più legata al passato seventies, gli Alice In Chains potevano essere considerati, insieme ai Gruntruck, la falange armata del movimento, che corazzava il nuovo suono con dosi massicce di metal.

Quando nel 2009, dopo la morte di Layne Stayle e a distanza di ben tredici anni dal loro ultimo lavoro in studio, la band tornò sulla  scena con un nuovo disco, Black Gives A Way To Blue, e un nuovo cantante, William Duvall, furono in molti a storcere il naso per il timore di ritrovare un grande amore irrimediabilmente invecchiato e un album che non fosse altro che la copia sbiadita di un’antica gloria, malinconicamente ripescata dai cassetti della memoria, per ragioni squisitamente commerciali.

Invece, Black Gives A Way To Blue era un buon disco (e DuVall un cantante eccellente ), non memorabile, certo, e un po' discontinuo, ma capace comunque di tratteggiare con dignità un diverso percorso artistico, che non si limitasse a scimmiottare il passato, ma guardasse invece avanti, se non proprio verso un nuovo suono, quantomeno verso una rinnovata creatività.

Il successivo, e ottimo, Devil Put Dinosaurs Here, uscito dopo quattro anni, nel 2013, affrancò definitivamente la band da ogni sospetto di riciclaggio di materiale di scarto: se il predecessore, infatti, portava ancora le stigmate di una carriera tribolata e doveva scrollarsi di dosso completamente polvere e ragnatele per far dimenticare a tutti che Layne era morto e sepolto, Devil Put…rappresentò, invece, una vera e propria rinascita, in cui la tentazione del copia-incolla, che in Black Gives Way To Blue ogni tanto ancora riaffiorava, veniva definitivamente accantonata per provare a esprimersi attraverso una vitalità creativa e un’ispirazione che forse mancava addirittura dai tempi di Dirt.

Rainier Fog procede esattamente sulla strada tracciata da quel disco: il suono è sempre più cupo, ossianico e claustrofobico, le canzoni sono mediamente più lunghe che in passato, e se il marchio di fabbrica rappresentato dagli intrecci vocali e dai riff icastici e dagli assoli vischiosi della chitarra di Cantrell continua a segnare uno stile inimitabile, i richiami ai fasti del grunge trovano una declinazione ancora più heavy.

Non un disco facile, anzi: le dieci canzoni che compongono la  scaletta dell’album (per cinquantaquattro minuti di durata) possiedono un tasso di indigeribilità altissimo e impongono un’attenzione e una predisposizione all’ascolto da veterani per riuscire a superare la prima impressione di trovarsi di fronte a un’opera monolitica.

D’altra parte, se come singolo è stato scelto The One You Know, con il suo riff atonale è ossessivo, è davvero difficile che in questa landa desolata e piovosa filtri un po' di luce. Così, la title track e Red Giant sono due classici brani alla Alice, che ci riportano agli anni gloriosi del grunge, ma non smettono di avviluppare l’ascolto in una coltre di pesantissima disillusione, e se Fly attenua appena la sensazione opprimente facendo vibrare le corde della nostalgia, è solo un momento, prima che l’avvitamento discendente di Drone avvolga nuovamente di tenebra la scaletta.

C’è un solo episodio che sposta il dolente mood dell’album verso un clima meno tormentato e più rilassato, ed è la splendida Maybe, complessa ballata dagli accenti psichedelici che si schiude in un ritornello molto melodico e orecchiabile, subito però riassorbita dalle dissonanze sludge metal della successiva So Far Under, unico brano a firma DuVall.

Rainier Fog è un disco riuscito ed emozionante, e per quanto ostico (o magari proprio per questo), ci dimostra che forse il grunge non è del tutto morto, se a suonarlo è una band come gli Alice in Chains, che è riuscita a rigenerarsi, a rielaborare una grave perdita e a lucidare il vecchio arsenale con nuove idee.

E’ comprensibile che molti fan della prima ora non riescano a dimenticare Layne Staley e che guardino a questo nuovo corso con una certa diffidenza; ma DuVall è un buon cantante, evita l’ingombrante confronto, mettendosi con umiltà al servizio della band, e queste canzoni sono così buone da attenuare qualsiasi nostalgico rimpianto. Se è vero che il passato non si può cancellare, i nuovi Alice si sono comunque liberati dall’obbligo morale di dimostrare di valer qualcosa anche senza Staley e, indubitabilmente, ci sono riusciti.