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REVIEWSLE RECENSIONI
14/09/2018
Any Other
Two, Geography
Se volete sapere chi è oggi Adele Nigro, chi è realmente diventata in questa fase della sua carriera, potrete avere una risposta esaustiva ascoltando questi 35 minuti scarsi di musica.

Devo essere sincero: la versione di Adele Nigro che vidi io per la prima volta, quella da ragazzina timida innamorata del Folk che assieme all’amica Cecilia Grandi aveva messo in piedi il duo delle Lovecats, c’entrava davvero a malapena con quella che ho davanti oggi. La stessa cosa si può dire per il primo disco dei suoi Any Other, quel “Silently. Quietly. Going Away” che, pur bello e prodotto benissimo, non era niente di più dell’ennesima rivisitazione di una proposta sentita mille volte (e tra l’altro già parecchio annacquata nel momento in cui questo disco usciva).

Per capire di che pasta fosse fatta davvero questa ragazza milanese, sono dovute arrivare le collaborazioni, due in particolare, tra le tante inanellate nel corso di questi ultimi tre anni: quella con Andrea Poggio, a cui ha prestato la sua voce nel bellissimo “Controluce”, esordio solista del musicista piemontese e quella con Colapesce, che ha accompagnato stabilmente in tour, suonando chitarra, sassofono ed occupandosi delle seconde voci.

È osservandola in questi due contesti, peraltro diversissimi l’uno dall’altro, che ho capito di avere davanti molto di più di una pur ottima autrice di canzoni, bensì una musicista a tutto tondo, fenomenale nel donare il suo personale tocco a qualunque progetto su cui mettesse le mani.

E quel che è successo ora che il secondo disco dei suoi Any Other è finalmente uscito, è che questa sua versatile creatività si è riversata nelle canzoni al punto che “Two, Geography” non è semplicemente il luogo dove Adele ha trovato sfogo alle sue ambizioni personali, dopo aver a lungo lavorato per altri, ma è l’autentico catalizzatore di tanta urgenza espressiva, dove tutte le esperienze passate sono in qualche modo confluite. Al punto che, penso di non sbagliarmi, se volete sapere chi è oggi Adele Nigro, chi è realmente diventata in questa fase della sua carriera, potrete avere una risposta esaustiva ascoltando questi 35 minuti scarsi di musica.

Che, beninteso, non si limitano più a parlare il linguaggio del Folk contemporaneo. Ci sono senza dubbio alcuni episodi che vanno in quella direzione (su tutti “Breastbone” con quel suo arpeggio classico e il suo fraseggio di violino) ma l’idea generale è che questo sia semplicemente un disco dove fantasia e voglia di suonare abbiano preso il sopravvento su qualunque discussione relativa al genere da proporre.

Certo, se dobbiamo dare dei riferimenti, ci viene senza dubbio facile partire da quelli che danno tutti: Wilco, Pavement, Mac De Marco, Courtney Barnett soprattutto. C’è sicuramente tanto di quell’attitudine giocosa e a tratti istintiva che caratterizza questi artisti, in questo muoversi tra sonorità prevalentemente acustiche e indolenti; se si ascolta però “A Grade”, la prima traccia, ci si accorge che quel che la caratterizza è il libero fluire dell’espressività vocale e strumentale dell’autrice, con la chitarra che viene puntellata dal pianoforte e poi aggredita dal sassofono, con le linee vocali che mutano in continuazione, senza mai fornire un punto di confidenza a cui appoggiarsi.

È in effetti un disco poco lineare, questo: lo è perché non ci sono ritornelli facilmente orecchiabili o memorizzabili come poteva accadere sul disco precedente (gli stessi singoli “Travellin’ Hard” e “Walkthrough”, in rotazione già da alcuni mesi, con il loro andamento blueseggiante ed il crescendo vocale, sono parecchio d’impatto ma non così apprezzabili ad un primo ascolto); perché succedono in poco tempo tante cose diverse (vedi “Perkins” con il suo solo elettrico nel finale o “Mother Goose”, tenuta su solo da una chitarra appena punteggiata e da una voce che è un potente grido liberatorio; o ancora, “Capricorn No”, dove basso, piano elettrico e batteria forniscono un accompagnamento quasi Jazz, con un violino che entra discretamente nel Break centrale; o se preferite, la title track, un brano in punta di piedi, con gli strumenti che salgono in cattedra piano piano guidati dal sassofono).

È un viaggio breve ma impervio, attraverso una geografia, quella del titolo, che coincide spesso con quella del cuore, dei sentimenti e della concezione di sé. La fatica di ritornare ad amare e di accettare di essere amata, dopo una delusione affettiva che distrugge l’autostima e dà la tentazione di pensare che non si valga nulla, che non si meriti nulla. La scoperta, travagliata, che si può ancora donare il proprio cuore ad un’altra persona, anche se con la riserva che “La mia felicità non deve dipendere da nessun altro che da me stessa”. Ardito, ma un po’ la si può capire, se è vero quello che racconta nella prima parte.

“Two, Geography” consacra gli Any Other come una delle più belle realtà musicali del nostro paese e pur rimanendo convinto che Adele dia il meglio di sé quando canta in italiano, occorre ammettere che l’inglese è funzionale ad un progetto che ha l’ambizione di essere autenticamente internazionale; e ci sta riuscendo anche abbastanza, se si pensa all’esibizione al Primavera Sound di quest’anno e al fatto che inaugureranno la loro attività live con un lungo giro fuori dai nostri confini.

Auguriamo loro ogni bene e li attendiamo al ritorno, per vederli finalmente dalle nostre parti.