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REVIEWSLE RECENSIONI
13/10/2018
Lenny Kravitz
Raise Vibration
Il suono leccato e pulito, il pilota automatico inserito come si conviene a chi non vuole rischiare proprio nulla, e l’impasto, ormai un filo stucchevole, di soul e rock a buon mercato, rappresentano il consueto e irrisorio apporto di Kravitz alla storia discografica di questo 2018

Non sono mai stato un fan di Lenny Kravitz, lo ammetto; ciò nonostante non posso non riconoscergli di aver sfornato un paio di dischi di buona fattura a inizio carriera (Let Love Rule del 1989 e Mama Said del 1991) e di aver tirato fuori, nel 2011, un gioiellino come Black And White America, forse la prova più convincente di una carriera abbastanza incolore. Tolto l’indubbio appeal iconografico e una buona resa in territori esclusivamente mainstream, Kravitz si è sempre barcamenato con la sua musica ad alto contenuto di prescindibilità, mettendo le proprie indubbie doti canore e un certo mestiere nel fondere black music e rock vintage al servizio di canzoni tanto furbette quanto superflue.

Se la bontà di un disco come il citato Black And White America aveva aperto alla speranza di un cambio di tendenza e di una finalmente acquisita maturità artistica, il successivo, debolissimo, Strut del 2014 aveva riportato anche i più ottimisti con i piedi per terra. Non è da meno quest’ultimo Raise Vibration, che mantiene molto meno di quanto promesso dalla solita allettante copertina e da un titolo ben augurante.

Il suono leccato e pulito, il pilota automatico inserito come si conviene a chi non vuole rischiare proprio nulla, e l’impasto, ormai un filo stucchevole, di soul e rock a buon mercato, rappresentano il consueto e irrisorio apporto di Kravitz alla storia discografica di questo 2018.

Si parte con pezzo di una bruttezza cosmica come We Can Get It All Together, evidente scarto di magazzino, e si continua con Low, singolo piacione ma senza mordente. Con Who Really Are The Monsters? il nostro decide anche di pasticciare con l’elettronica, e il risultato è davvero sconcertante, mentre la successiva title track sfoggia qualche chitarra d’ordinanza, risultando però la copia slavata di qualunque altra canzone del suo repertorio più elettrico.

C'è spazio anche per due ballate, Johnny Cash, omaggio a the man in black, che ripulita dagli zuccheri non sarebbe nemmeno brutta, mentre la successiva Here To Love, gioca con la glicemia degli ascoltatori, che a questo punto si saranno trovati a esclamare con un certo disappunto il titolo della settima traccia, It’s Enough!, un funkettino fighetto senza infamia e senza lode, tirato avanti però per ben otto minuti.

Decisamente meglio la sensazione r’n’b di 5 More Days ‘Til Summer, attraversata da un piacevole assolo di chitarra, coretti alla Pizzicato Five e un mood divertito, e non è male The Majesty Of Love, altro funky, questa volta un filo più grintoso. Gold Dust è un’altra inutile ballata soul rock anonima e bruttina, così quando parte la successiva Ride, con il suo retrogusto anni ’70 e una morbida melodia finalmente azzeccata, si tira un sospiro di sollievo. Chiude la scaletta I’ll Always Be Inside Your Soul, altra ballata al caramello, che sancisce la definitiva resa di fronte a un disco che non decolla mai e che in alcuni passaggi risulta essere perfino indigeribile.

Ciò non toglie che Raise Vibration, grazie anche al traino di Low, vero tormentone da Fm, venderà bene e non dispiacerà ai tanti fan del rocker (si fa per dire) newyorkese. Per tutti gli altri, il consiglio è di astenersi, a meno che, ovviamente, non vogliate nutrire i trigliceridi del sangue o fare violenza gratuita ai vostri sacri zebedei.