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THE BOOKSTORECARTA CANTA
Come una macchina volante
Mimmo Locasciulli
2018  (Castelvecchi)
LIBRI E ALTRE STORIE
all THE BOOKSTORE
13/10/2018
Mimmo Locasciulli
Come una macchina volante
Ho letto “Come una macchina volante” e ho rivisto chiara ed evidente quella necessità di guardare con fame e rispetto al passato dei grandi prima di farci sacerdoti di un futuro che deve ancora accadere. Ho letto il nuovo libro di Mimmo Locasciulli ed è bellissimo sentirsi ancora troppo piccini. (Paolo Tocco intervista Mimmo Locasciulli)

“I libri, così come i racconti dei nonni o i discorsi delle persone illuminate sono il cemento senza il quale non puoi costruire l’impalcatura del tuo essere davvero un uomo”.

Una splendida chiusa per una delle tante domande che ho avuto il piacere di rivolgere a Mimmo Locasciulli, prima medico o prima cantautore. Forse non importa dare un peso cronologico a queste due presenze. Forse sono facciate di una sfera che non ha direzione e verso, che non ha un prima e un dopo ma solo un meraviglioso durante. Durante: ecco una bella parola che vien fuori dalla lettura di un libro che non ha presunzioni e progettualità da inseguire, non ha la forma di un romanzo o di una biografia, non è un documentario e non mi arriva come una testimonianza storica. In realtà, pagina dopo pagina, sembra voler fare ognuna di queste cose ma al tempo stesso, con grandissimo gusto e delicatezza in quel magico “durante” della lettura, questo libro resta in un limbo estetico che sa di magia, che sa di quella polvere sottile che fa volare i tappeti, che sa di quell’incanto artistico ed intellettuale che solo la scoperta della vita da parte di un’anima profonda come la sua sa restituire.

Ho letto “Come una macchina volante” di Mimmo Locasciulli, medico e cantautore, cantautore e medico, di sicuro pilota di lungo corso di questa macchina che si produce in un dolcissimo volo a planare. E appunto planando, sempre a favore di vento, l’artista e l’uomo si sfogliano addosso alcune di quelle pagine della sua stessa vita in cui sono state poste le basi e le colonne portanti di un futuro che oggi conosciamo tutti, professionalmente, artisticamente, umanamente. Un lungo e dolcissimo volo a planare che da Penne, dall’Abruzzo, dai giochi di un bambino, da quel primo pianoforte arriva d’un solo fiato fino ad un giubileo spirituale, fino al 1975, fino a quel primo disco di Mimmo Locasciulli cantautore.

Ha ragione lui quando dice che non è una biografia. Ho ragione io quando dico che lo è stata per la mia fantasia. Ha ragione lui, ne ha da vendere in fondo, quando mi fa capire l’importanza di mordere la vita, che da piccoli sembra gigante e inarrivabile, e di morderla ogni giorno con quelle bocche di formiche. Ho ragione io quando dico che questo libro va letto e fatto leggere a chi oggi con un computer soltanto ottiene gratuitamente e senza limiti quella sensazione che giustifica la pretesa di arrivare prima ancora di essere partito.

Ho letto “Come una macchina volante” e ho rivisto chiara ed evidente quella necessità di guardare con fame e rispetto al passato dei grandi prima di farci sacerdoti di un futuro che deve ancora accadere. Ho letto il nuovo libro di Mimmo Locasciulli ed è bellissimo sentirsi ancora troppo piccini.

La promessa che rivolgo alla redazione è quella di tornare a parlare di lui a stretto giro quando, passati i primi giorni di novembre, il 9 precisamente, uscirà anche il nuovissimo disco di inediti dal titolo “Cenere”. Disponibile anche in vinile… e qui su Loudd, lo sapete, i vinili hanno vita lunga, anzi lunghissima.

Ho letto “Come una macchina volante” e scopro di aver conosciuto solo ora il grande artista che è Mimmo Locasciulli.

Una biografia di un uomo, di un medico di un cantautore. Meraviglioso per me ritrovarsi tra le mani l’inizio di questa lunga storia invece che, soluzione forse più scontata, leggere degli anni del successo, dei grandi nomi, dei grandi festival, delle grandi collaborazioni. Vista l'era del gossip e delle apparenze in cui ci troviamo forse avrebbe attecchito più questa parte; e invece questo libro la ignora totalmente. Io sono di quelli che celebra le radici credendo che in esse sia racchiusa la ricetta magica di quel che verrà poi. E tu invece? Cosa ti ha spinto a raccontarci solo questa prima parte della tua grande storia?

Il libro, in realtà, non è una biografia e tanto meno una autobiografia. È più semplicemente il racconto di alcuni passaggi della mia vita, di alcuni momenti, degli incontri, degli accadimenti che hanno determinato le scelte che, come mi appare chiaro oggi, ho cominciato a programmare da bambino. In modo conscio, per taluni aspetti, in modo assolutamente inconscio per altri. Il racconto comincia con la scoperta del microscopio di mio padre veterinario e con l’arrivo di un magnifico pianoforte nella nostra casa. Avevo cinque anni e l’anima era una carta assorbente. Tutto è iniziato lì, scienza e musica. In una terra che ci ha messo il resto arricchendo la mia crescita di sensibilità, senso di appartenenza, dignità, determinazione. Quel programma si è svolto nel corso di ventuno anni e si è realizzato compiutamente nel 1975. Se avessi continuato a raccontare la mia vita oltre quel termine, se dunque avessi raccontato la mia storia artistica o anche professionale, avrei trasformato il racconto in autobiografia, che è un aspetto letterario che non mi affascina particolarmente. E poi mi piace constatare che il libro si conclude con un inizio. Il che non accade frequentemente.

Ho appena acquistato il tuo primo disco. “Non rimanere là” (FK 5001 del 1975). E proprio in quel giorno che finisce il tuo romanzo. Ma parliamo un attimo di questo tuo disco, di questo tuo “Giubileo”: lo hai mai riascoltato? E se ti chiedessi di raccontarmelo ora?

Lo riascolto, non troppo spesso ma accade. E sorrido. Per l’ingenuità artistica che racchiude, per la semplicità e la purezza delle impurità che non vengono nascoste o mascherate. Quel disco è lo specchio esatto dell’essenza del Folkstudio. Si cantava senza microfono, con il pubblico a ottanta centimetri dalla tua bocca. Un errore non era una colpa ma veniva accolto con affettuosa benevolenza. Non c’erano trucchi in quel posto né nelle persone che lo frequentavano. C’era amicizia, appartenenza, mani nude. Quel disco è così. E lo amo per come è. E poi sono ancora molto orgoglioso di essere stato il primo artista dell’etichetta Folkstudio, quando nella lista degli arruolati c’erano forse musicisti di gran lunga più importanti e meritevoli di me.

Su una macchina volante, forse essendo tu stesso la macchina volante con cui sorvolare il tempo e le sue cose. Decidere di salirci a bordo quanto è stato dolce e quanto invece violento da far male per giorni?

È stato solo molto dolce, nessun dolore. Ed è accaduto per parto spontaneo, senza alcuna induzione. Nel corso di alcuni anni avevo raccolto un po’ dei miei ricordi in appunti che, pensavo, mi avrebbero aiutato a conservare nitide immagini e storie che amavo, che appartenevano alla dolce intimità che a volte si cerca con se stessi. E non c’è alcuna nostalgia, anche se quel tempo bello e felice è lontano. A volte scrivere di se stessi può essere lacerante, e a me è accaduto nella scrittura dell’album “Idra”. Ma lì mi sono trovato a scavare nei recessi più reconditi della mia anima in un difficile percorso autoanalitico. Se sei totalmente sincero con te stesso metti a nudo tutto il bello e orribile mondo che è dentro di te. La mia macchina volante, al contrario, è stato il mezzo che mi ha permesso una visione panoramica, dall’alto, di un orizzonte che osservato da una prospettiva bassa è necessariamente più ridotto.

Sicuramente è impossibile racchiudere una vita come la tua (anche solo una piccola parte di essa come in questo caso) in appena un centinaio di pagine. Di sicuro tante cose sono rimaste fuori. Ovviamente non siamo qui a chiederti cose private e segrete, ma qualcosa che forse col senno di poi avresti inserito volentieri?

No, nel libro c’è tutto quello che volevo raccontare. Dall’alto della macchina volante il paesaggio di sotto è in qualche modo ridotto: le case, le strade, le persone hanno dimensioni diverse dalla realtà. Man mano che scendi le proporzioni si avvicinano fino a combaciare col reale. Questo per dire che molti capitoli di cui si compone il libro avrebbero potuto raggiungere, se sviluppati adeguatamente, la dignità di un racconto autonomo. Ma la mia finalità era raccontare come, perché, attraverso quali tappe e con la vicinanza di quali persone, ho costruito il programma della mia vita e l’ho realizzato. Lo zoom sarebbe stato fuori luogo, penso.

Voglio sottolineare questo passaggio e vorrei che me lo commentassi: "E poi avevo i sacri profeti della parola, le aquile che sapevano velare i nostri occhi mortali di infinito; sapevano inserire nei nostri cervelli cavi i fermenti della luce e il giuramento che, riaperti gli occhi, non avremmo più concesso alcun tempo all’ignoranza”. Che meraviglioso passaggio per descriverci la fame che si ha della vita in un’età in cui sboccia la consapevolezza della vita stessa… almeno io l’ho letta così...

Il capoverso immediatamente precedente recita: “Ho sempre immaginato che i richiami magnifici per la mente venissero dall’ascolto del creato: dai moscerini minuscoli come dall’ampiezza splendida dell’inesauribile. E allora osservavo i tuoni, la dimora del cuore, il gelo che non aveva colorazioni, i fiori che, svanita ogni misura della terra, si esaltavano nella gioia”. Allora, come oggi, le mie giornate erano il bersaglio di innumerevoli proiettili carichi di ispirazione, consapevole o nascosta. In uno strano e per certi versi incomprensibile processo metabolico questa scorta di immagini, diciamo poetiche, si trasformano nel nutrimento della mia esistenza e quindi della mia crescita, anche intellettuale. Ma questo non è sufficiente per garantirti la correttezza dell’equazione. Riconosco una importanza più che fondamentale alle parole, al pensiero e all’esempio dei migliori. I libri, così come i racconti dei nonni o i discorsi delle persone illuminate sono il cemento senza il quale non puoi costruire l’impalcatura del tuo essere davvero un uomo.

Lasciami riportare un altro passaggio assai interessante: "Nessuno quel tempo immaginava che il potere partorisse a grandi carichi, come la vipera, e che ci avrebbe preso a sassate nel cuore; che sarebbe uscito vivido come il corallo e con il sangue del cancro. Noi avevamo l'altezza della gioventù e vivevamo in quella bianchissima solitudine prevista dal vento.” Corro con la fantasia e le immagini che mi restituisci per chiederti: cos’è stato per te il ’68 e in generale tutto quel periodo di grandi rivoluzioni sociali?

Pur vivendo in un piccolo paese come Penne, avevo naturalmente interesse e curiosità per gli eventi che accadevano nel mondo. La musica era lo specchio sonoro della realtà di quegli anni, il vettore delle istanze giovanili. La ribellione era nell’aria, in parte generata dall’opposizione alla guerra del Vietnam, in parte determinata dall’insofferenza dei ragazzi nati dopo la fine del secondo conflitto mondiale verso l’educazione conservatrice e bigotta che regnava in America. Molti intellettuali, filosofi e sociologi contribuirono ad alimentare la spinta contestatrice. In quegli anni leggevo moltissimo: i libri di filosofia di mia madre e i libri che comperavo sapendo già di cosa parlassero. Autori come Camus, Sartre, Marcuse, Bertrand Russel mi tenevano incollato alla lettura e mi proiettavano in una dimensione di universale appartenenza. Era più che naturale che emotivamente e ideologicamente mi sentissi un figlio del sessantotto.

Negli anni passati a Perugia ho vissuto quasi una dimensione inversa: era fortissima l’influenza del FUAN (Fronte Universitario di Avanguardia Nazionale) d’ispirazione fortemente reazionaria e, tutto sommato, gli echi delle sommosse di Harward e Berkley si diluivano in una realtà ancora molto statica, immobile.

A Roma, al contrario, ho trovato un’aria diversa. Sentivo più che altro la mancanza di un’identità ideologica, c’era un disordine di pensiero e di azione che disperdeva la potenzialità di una spinta unitaria. Da una parte le componenti di matrice cattolica e più moderata, dall’altra le frange più estreme del proletariato studentesco. In mezzo quelli come me: istintivamente e sinceramente partecipi, ma frenati dalla violenza verbale, e non solo, espressa nei collettivi e nelle manifestazioni riferibili in qualche modo all’estrema sinistra e alle formazioni extraparlamentari. Credo che in Italia non si siano colti in pieno l’essenza e le possibilità di conquista vera che la rivoluzione giovanile reclamava. Sì, certo: il potere ancora una volta ha vinto ma c’è stata una degenerazione nell’impostazione politica di quell’onda d’urto che ne ha indebolito la forza.

Posso uscire un poco dal tema portante? Una nota curiosa, da abruzzese come te. Lasciami appena divagare visto che da te e dal tuo racconto ricco di citazioni prendo spunto per riflettere e scoprire cose di casa mia: tutti guardiamo il massiccio del Gran Sasso e diciamo “Ecco la Bella Addormentata”. Ed invece la Bella Addormentata, secondo la legenda, è la Majella. Insomma, dov’è che il detto comune e la realtà di un mito si separano o si incontrano?

Sì, lo so che ci sono due indirizzi di pensiero, ma quello che ho scritto nel libro è il risultato della documentazione che ho trovato: la Majella è la madre e le folate furiose dei suoi venti hanno il fragore del pianto della Dea Maja per la morte di Ermes, il gigantesco figlio avuto da Giove. Maja seppellì il suo gigante sul Gran Sasso: la montagna prese le sembianze di quella sagoma enorme e la gente iniziò a chiamarlo “il Gigante che dorme”.

Dalla provincia di un paese come Penne alla Roma Capitale di quegli anni. Ma io sono convinto che erano anni in cui accadevano cose. L’incontro che narri in questo libro, l’incontro delle persone e degli artisti, era foriero di opportunità che, a saperle cogliere, fiorivano di futuro e nuove cose. Tu ne sei un esempio. Mi capita spesso di pensare a quel tempo (che posso solo osservare dai vostri racconti) come ad un periodo italiano in cui le persone erano ricche di curiosità e di scoperta. Avevano fame di conoscenza. Oggi invece ho l’impressione di vivere un tempo di indifferenza e anestetico vagabondaggio, tra le sporcizie del mainstream e le infinite possibilità della rete. Secondo te: un Folk Studio, oggi, avrebbe senso e possibilità di esistere? 

Sarebbe molto utile, oltre che bello. Ma i tempi sono cambiati e oggi il mondo corre veloce. Si va in fretta, si consuma in fretta e si getta via tutto in fretta. Anche nella musica è così: i talent ne sono una conferma. Noi crescevamo facendo prove su prove dentro le cantine e suonando dappertutto. Per noi c’era sempre un secondo appello: le prove, i concertini nelle case private o nelle balere erano occasioni di crescita. Avevamo il tempo di analizzare il nostro operato e di tentare di migliorarci. Oggi no, un ragazzo pretende dalla vita l’occasione immediata. E casca così nella rete di quei produttori senza scrupoli che se va bene ti succhiano la vita e gran parte dei guadagni, se va male ti lasciano bruciare al vento dell’oblio. Il mio pensiero va a quelle centinaia di ragazzi che, una volta esclusi, trovano con estrema difficoltà una seconda chance. E si perdono nel nulla.

E se ti chiedessi della canzone d’autore di oggi? Un tempo suonavate per il pubblico. Ora sembra quasi si debba suonare per i Like dei social. Voi avevate voglia di essere, tra la gente e con la gente. Oggi si ha necessità di apparire. Che ne pensi?

Mah, ogni tempo ha una colonna sonora che lo rappresenta, o più colonne sonore.

Gli anni della mia formazione, della mia crescita e della mia realizzazione artistica sono stati caratterizzati anche (non solo) dalla canzone d’autore. Con questo termine io intendo quella forma di canzone che nasce con la finalità di rappresentare il tempo che il cantautore vive, descrivendo le sue sensazioni, le sue adesioni, i sentimenti, le opposizioni e così via. Chi scrive canzone d’autore deve essere il riflesso del suo tempo e ne deve esprimere l’essenza. Direi che l’immagine classica del cantautore degli anni Settanta e ottanta, oggi non corrisponde più alla quella figura. Ne riconosco le caratteristiche molto più in artisti come Frankie Hi Nrg o Caparezza

Sono sicuro che torneremo a parlare di te su queste pagine visto che a breve uscirà il nuovo disco. Sono passati 43 anni da quel primo Lp “Non rimanere là”.  Oggi che storia accade?

Accade che il tempo è passato senza che me ne accorgessi. Mi ritrovo col cuore forse più giovane di allora ma la strada che ho davanti è molto più corta. E questo mi provoca una fastidiosa distonia. Non accetto totalmente la mia età anagrafica, anche se non ne faccio una questione. Ma è la mia età biologica che reclama a pieno titolo la conservazione di un posto in prima fila nello svolgimento della vita: quella artistica e quella reale. In una canzone di una dozzina di anni fa, “Hemingway”, dicevo “Quanto tempo ci resta ancora da scrivere senza distinguere senza più scegliere un segno. Come compagni che si scambiano la strada o come gli amanti che amministrano i minuti. Niente si perde per niente e non si scambia con niente e non si lascia per niente..” Ecco accade che, a dispetto del tempo, ho ancora molte cose dentro che premono per uscire fuori.

Per chiudere, dopo aver fatto questo lungo viaggio con la macchina volante pensi valga la pena riprovarci? Magari visitare un altro tempo…  oppure come Doc Brown in “Ritorno al futuro” pensi sia un danno viaggiare nel tempo? In altre parole, restando sulla metafora, tornerai su questa macchina volante per scrivere ancora del tuo tempo?

Sono stato bene con me stesso quando ho scritto questo racconto, così come sto bene con me stesso in questi mesi in cui sto scrivendo il mio nuovo album. Mi piacerebbe molto avere una seconda esperienza di scrittore, ma so perfettamente che scrivere di se stessi è più semplice che scrivere un racconto o un romanzo di fantasia pura. Anche se poi in tutto ciò che un autore scrive c’è sempre una quota importante, nascosta o palese della sua vita. Dovrei avere un’idea forte ma non so se ne sono all’altezza. Non so… vediamo. Di certo non andrò oltre la “macchina volante” per scrivere un’autobiografia. Come ho detto rispondendo alla tua prima domanda, non mi piace particolarmente come espressione letteraria.