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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
26/10/2018
AMERICANA PT. II (Weightless o dell’essere gettati nel Mondo)
“To the wonder” - Terrence Malick (2013)
Un uomo, una donna, soli di fronte alla grande distesa del mondo.

"E' come la ruota delle passioni tibetana. Quando gira, i valori

e i sentimenti che sono all'esterno salgono e scendono, ma il vero

amore attaccato all'asse della ruota, non si muove"

(Haruki Murakami - 1Q84)

“Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”, recita il titolo di una biografia sullo scrittore americano David Foster Wallace. Mi sono spesso chiesto come interpretare questa frase e mi sono risposto che forse il riferimento è alla caducità delle cose e all’inafferrabilità di una storia. Uomini, donne calati in un mondo che gira, gira e li fa cadere. “Qualche volta accade qualcosa che spezza la tua vita. C’è un prima e un dopo” (Rust Cohle - True Detective, 2014)

 

Prima: essere gettati.

Terrence Malick rappresenta un enigma affascinante che si ripete per moduli: quattro film realizzati nell’arco di trentadue anni, uno stop, altri quattro film girati in sei. Sembra che il regista dopo la pausa ventennale che separa il suo secondo film dal terzo[1], abbia iniziato a danzare come Marina, la protagonista del film “To the wonder”, senza più volersi fermare. Vent’anni in cui si dice che abbia insegnato Filosofia; spesso nelle note dei comunicati stampa si legge la menzione del fatto che abbia tradotto per gli Stati Uniti le opere di Martin Heidegger, il filosofo esistenzialista che ha ampiamente tratteggiato la condizione umana come soggetta allo spaesamento nel sentirsi “gettata” nel mondo.

Dopo un uomo al termine della sua vita (cfr “Lucky” in Americana Pt. I) partiamo da qui, allora, da una coppia che si ama, che vuole dare vita a un progetto e che si trova ad avere a che fare, come tutti, con le asperità della vita. Li vediamo calpestare, divertiti, la bassa marea delle acque che portano alla meraviglia che dà nome al film: l’abbazia di Mont Saint-Michel, in Francia. Alta e bassa marea, come la ruota tibetana, ma con l’asse sbilenco, quasi a voler scardinare anche quel sentimento che non si muove: l’amore. Aggiungete un prete in crisi con la sua vocazione e avrete un film senza peso, inteso nel senso della mancanza di gravità, anche se prima o poi si cade sempre a terra. Lo sostiene magistralmente anche Stephen King alla fine di uno dei suoi capolavori[1], dove la lotta tra Bene e Male assume un’entità cosmica: “La vita è una tal ruota che nessuno rimane in piedi a lungo. E alla fine si torna al punto di partenza”.

 

Dopo: essere spaesati.

Weightless era il primo titolo pensato per l’ultimo film di Malick (“Song to song”), significanza tradotta nella velocità delle immagini e nello stile di montaggio frenetico, quasi a discapito della sceneggiatura; stile che ci riporta ad una vecchia querelle cinefila, incentrata su quale sia il perno di un film, vale a dire la sceneggiatura o se basti la presenza degli attori. Il riferimento è al film di Wim Wenders “Lo stato delle cose”[2] e al dialogo finale, con l’attore che interpreta un regista rimasto senza fondi per il suo film e che al termine del suo pellegrinaggio si trova al centro di una piazza, senza più riferimenti. Al di fuori di un drugstore americano, punta una piccola telecamera nel gesto di difendersi, dopo che da un punto imprecisato irrompono degli spari, anche se non sa dove o verso chi puntarla.

Lo spaesamento, a mio avviso, è una condizione che può condurre a due atteggiamenti: o un gettarsi senza rete, teso ad osservare quello che ci circonda o l’abbandonarsi in modo disincantato agli eventi. In questo senso è centrale l’attività del marito in “To the Wonder” che sonda il terreno e nei carotaggi scopre la presenza del cadmio che in chimica viene classificato come metallo di transizione. Un passaggio da una situazione a un’altra quindi (di canzone in canzone, verrebbe da dire), come Marina che a furia di volteggiare finisce dalla Francia alle grandi pianure americane. Transizione che è anche l’andare e tornare delle maree della famosa abbazia che si staglia come una grande presenza che osserva dall’alto la vita dei due innamorati. Anche da quel punto, forse, possiamo allora immaginare che partano metaforicamente, gli spari menzionati prima, come contraccolpi simbolici delle avversità che si propagano fino alle sponde americane.

 

Adesso: volteggiare

Allora non resta che buttarsi, anche senza sguardo, come nella scena emblematica in cui la donna in automobile lascia che il velo le ricopra il volto accecandola come nel dipinto di Magritte dal titolo “Les Amantes” con l’uomo e la donna che si baciano con la testa coperta. Accettare il rischio dell’inganno, del tradimento, degli ostacoli che si frappongono a minare un rapporto[3]

“Dovete amare, che vi piaccia o no. L’emozioni vanno e vengono come nuvole (come le onde di Mont Saint- Michel nda). L’amore non è solo un sentimento, l’amore dovete dimostrarlo. Amare significa correre il rischio del fallimento (…) pensate che il vostro amore sia morto, forse è in attesa di essere trasformato in qualcosa di più alto”.

Queste ultime parole del prete racchiudono tutta la poetica del film e alzano lo sguardo a un livello superiore; personalmente non concordo con le accuse che sono state mosse al regista: la prima incentrata sul suo modo di dirigere come se lasciasse la telecamera senza controllo col risultato di realizzare film poco comprensibili, quasi un'accozzaglia d’immagini poco fruibili. La seconda riguarda l’abbraccio della fede già evidente in “The Tree of life” che terminava con una prefigurazione del Paradiso, poi proseguito con un ritorno sulla Terra per affrontare l’inferno degli ostacoli che si frappongono al cammino di una coppia[4].

Proprio in questa reductio, sta a mio avviso la grandezza di Malick, vale a dire il passaggio, la transizione (ricordate il cadmio?) per cui si sposta l’asse del discorso dal Cosmo all’intimità del rapporto tra un uomo e una donna. Quello da sempre mi ha colpito in questo film è la cristallina trasposizione dell’esergo tratto da Murakami con le passioni, i comportamenti umani in alternanza tra dignità e abisso, questo movimento circolare che viene incarnato dal danzare di Marina. E l’amore che resterebbe attaccato all’asse?

Potremmo aggirare la domanda (ancora spostamenti, transizioni) spostandoci anche noi a un livello più alto, metafisico, chiudendo con una citazione che nel tempo ho fatto mia (la trascrivo più o meno a memoria preparandomi anch’io per la stagione in cui ci troveremo tra i boschi a raccontare i libri andati in fumo[5]) e che vale da sola tutto il discorso condotto fino ad ora e lo riassume ricomprendendo tutto: la Bellezza di Mont Saint-Michel con le onde di alta e bassa marea, i contraccolpi che incrinano i rapporti umani e lo sguardo sulle cose portato a un livello superiore:

Amare è gettarsi nel buio dell’altro. Come creare”[6]

Weightless.

 

Post-Scriptum

Il film si conclude con lo sguardo di Marina, rimasta sola di fronte ad una grande distesa d’acqua. Impossibile non pensare, allora, a Jean-Pierre Léaud/Antoine Doinel che al termine del film “I 400 colpi” di François Truffaut[7], corre finalmente verso il mare ma giunto alla riva indietreggia timidamente di fronte alle acque e si gira. Spaesato, torna indietro e guarda in macchina. La stessa posa di Marina che, però, di fronte alla vastità delle acque guarda da un’altra parte, in un punto non precisato, forse più in alto.          

 

Post-Lettura e pro-ascolto

Di canzone in canzone, di citazione in citazione, arrivati alla fine - senza peso - non resta che riallacciarsi all’esergo iniziale e di Giappone in Giappone ascoltare la meraviglia del brano qui sotto, che dato l’argomento trattato non poteva avere altro titolo. 

 

NOTE:

[1] “L’Ombra dello Scorpione (The Stand)” - Pubblicato per la prima volta nel 1978.

[2] Premiato con il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1982.

[3] “La trappola della vita”. Come la denominava Rust Cohle in True Detective (Prima serie). “Questa profonda certezza       che le cose saranno diverse, che ti trasferirai in un’altra città e conoscerai persone che ti saranno amiche per il resto della vita, che ti innamorerai e sarai realizzato”.

[4] Gli stessi ostacoli che ha dovuto affrontare Malick cadendo dall’incensazione ricevuta a Cannes con la Palma d’Oro ai fischi ricevuti alla Mostra di Venezia per quest’ultimo film.

[5] Ogni riferimento al finale di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury è doveroso.

[6] Johnny Costantino, direttore della rivista “Rifrazioni. Dal Cinema all’Oltre”

[7] E si torna circolarmente alla Francia e alle onde, con uno dei fondatori del la Nouvelle Vacue che tanto ha scardinato le regole di un certo vecchio modo di fare Cinema. Cambiamenti, transizioni: le cerchiamo sempre.

 

[1]  “I giorni del cielo”, 1978 - “La sottile linea rossa”, 1998