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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
29/10/2018
Del Diritto di Ascoltare i Greta Van Fleet
e di provarci pure gusto
Greta Van Fleet, giovane band statunitense proveniente dal Michigan, nelle ultime settimane è diventata un piccolo caso mediatico anche da noi

Greta Van Fleet, giovane band statunitense proveniente dal Michigan, nelle ultime settimane è diventata un piccolo caso mediatico anche da noi. Piacciono, e tanto, soprattutto alle nuove generazioni, i biglietti della loro unica data italiana sono andati esauriti in un battito di ciglia, e se ne parla molto, non sempre, peraltro, in termini lusinghieri.

In un inedito ribaltamento di ruoli, i maggiori detrattori della band appartengono alle schiere degli appassionati veterani, quelli che l’hard rock anni ’70, genere a cui i GVF si ispirano apertamente, lo conoscono a menadito. Le critiche, tutte ben articolate e anche condivisibili, vertono prevalentemente sul fatto che questi ventenni, che hanno fatto tesoro della discografia di papà e mamma, non solo non inventano nulla, ma scimmiottano in modo smaccato gli intoccabili Led Zeppelin, icona sacrosantissima del decennio seventies.

Insomma, molti critici non si capacitano di come sia possibile saccheggiare il Santo Graal e passarla pure liscia, con tanto di plauso da parte di un seguito sempre più crescente di fan. Come dicevo, tutte queste obiezioni, a livello teorico, non fanno una grinza: i Greta Van Fleet sono giovani affetti da passatismo, e se i più benevoli si limitano a suggerire che questi ragazzi si ispirano liberamente a…, per la maggior parte dei denigratori rappresentano, invece, una parodia mal riuscita di una sacra leggenda.

Alla luce di questo assunto di partenza, che possiamo dare per buono, mi permetto alcune riflessioni che, se avrete la pazienza di continuare nella lettura di queste righe, mi mettono nella posizione scomoda di chi si trova a fare l’avvocato del diavolo, senza peraltro che gliene venga in tasca nulla.

Che i Greta Van Fleet girino con la foto dei Led Zeppelin nel taschino è tanto ovvio quanto lo è il loro passatismo. Fa strano, però, che tutti se la prendano con loro e non invece con le centinaia di nuove band che spuntano come funghi al sole dopo una giornata di pioggia, e che si ispirano (si fa per dire) a questo o a quello, senza che nessuno obietti qualcosa. Tutto scorre e tutto è ciclico e derivativo. Perché, ditemi: quanti sono in un anno quei dischi davvero originali, che ci fanno ululare di piacere e che finiscono nelle nostre personali top ten? Pochi, pochissimi, quasi nessuno.

Peraltro, e qui so di bestemmiare in chiesa, nemmeno i Led Zeppelin erano secondi a qualcuno in quanto a revisionismo e scopiazzature: se è vero che hanno creato un suono, è altrettanto vero che hanno rubato a destra e manca come i lanzichenecchi nel saccheggio di Roma del 1527 (Whole Lotta Love vi dice qualcosa?).

In un paese come il nostro, peraltro, che non ha una tradizione musicale e che tutto, lo scrivo con un filo di malizia, potrebbe essere definito parodistico, viene da sorridere di fronte a tanta intransigenza nei confronti dei poveri Greta. Voglio dire, questo è la nazione (non l’unica, ovviamente) in cui migliaia di persone restano incollate al televisore per guardare X Factor, discount di presunti talenti venduti un tot al chilo, e parodia delle arene romane, in cui l’antica locuzione panem et circenses assume oggi le fattezze della simulazione che sostituisce l’umiliazione catodica al sangue, disperdendo quel sacro fuoco che dovrebbe animare la musica e i giovani. Almeno, i nostri amici Greta Van Fleet sono sinceri e non nascondono nulla di quello che sono in realtà: devoti adoratori del vintage che tentano di emulare il rock dei giorni di gloria.

Fa sorridere, poi, che le critiche più intransigenti nei loro confronti provengano proprio da chi ha amato visceralmente i Led Zeppelin, e cioè una generazione, a cui io stesso appartengo, affetta da una retromania ormai cronicizzata.

Per intenderci, noi siamo quelli capaci di spendere centinaia di euro per comprare l’edizione deluxe di un vecchio disco che conosciamo a menadito e che possediamo già in tutte le salse possibili. Una cosa folle, a pensarci bene, perché non è certo un dischetto in più composto di outtakes o alternative versions, spesso sostanzialmente inutili, a motivarne l’acquisto, ma il nostro desiderio inconscio, semmai, di replicare una giovinezza o un momento felice del passato che non può più tornare.

Perché allora non godersi i Greta Van Fleet, che non sono la pedissequa replica di giorni andati, ma la concreta e presente rielaborazione che dei giovani, anche in modo imperfetto, fanno di quel passato a noi tanto caro? Immaginiamo, per un momento, di aver avuto nella nostra vita un grande amore perduto per sempre, e di incontrare dopo anni una giovane donna che ne possiede le medesime fattezze, lo stesso sorriso e lo stesso sguardo: a chi, anche solo per un attimo, non batterebbe forte il cuore? Chi non sarebbe disposto a rivolgerle la parola solo per vedere se è possibile riaccendere un vecchio fuoco? Certo, se le parleremo, scopriremo che non è esattamente la stessa donna; ma quella incredibile somiglianza non ci spinge forse a rubarle un bacio o un abbraccio, per quanto fugaci?

Strano a dirsi, ma i Greta Van Fleet piacciono molto ai giovani, e questa è una circostanza che dovrebbe accenderci il cuore di gioia, perché ci suggerisce che il rock, in un modo diverso, certo, è ancora capace di interpretare le istanze dei ventenni. Se è vero che il rock è morto come processo creativo (e salvo qualche eccezione lo è a partire dalla fine degli anni ’60), non lo è, però, come momento di aggregazione, come rito di passaggio, e come rituale, quasi religioso, che unisce quei giovani che hanno ancora voglia di dare sfogo alla propria rabbia e alle proprie frustrazioni, e che desiderano essere attraversati dalla stessa elettricità che faceva sentire liberi e felici anche noi quando, tanti anni fa, ascoltavamo proprio i Led Zeppelin.

Ringraziamoli, dunque, i Greta Van Fleet, perché in qualche modo salvano i nostri ragazzi dal ciarpame dominante, suggerendo loro che esiste una musica altra rispetto a questa trap (derivativa e decontestualizzata), alle insulsaggini sudamericane, o qualche segaiolo compulsivo che si fa passare per cantautore impegnato, rivendendoci la stessa roba di cinquant’anni fa, lucidata però con due tastierine e lo sguardo triste di chi porta sulle spalle tutto il peso del mondo.

Anche perché, ciò che per noi è passato, per le giovani generazioni può rappresentare il futuro: dietro ai Greta Van Fleet ci sono i Led Zeppelin, e a fianco, prima e dopo i Led Zeppelin, centinaia di gruppi e artisti che hanno reso splendida questa lunga avventura chiamata rock. La buona musica è contagiosa, e la scoperta, dunque, è ancora tutta da fare, magari partendo proprio da questi vituperati giovanotti del Michigan.

Personalmente, come avrete capito, i Greta Van Fleet mi piacciono. Poiché ho alle spalle qualche anno di ascolti, so esattamente chi furono i Led Zeppelin, e ho, soprattutto, la consapevolezza che i Greta Van Fleet non potranno mai sostituirli nel mio cuore. Però, rivendico il diritto di ascoltarli, cosa che faccio con quella selvaggia leggerezza che ancora provo ad alzare il volume dello stereo, quando le chitarre ringhiano e la batteria pesta di brutto. Lo confesso: li ascolto e ci provo anche gusto. Mi fanno sentire molto più giovane dell’ennesima reissue di uno splendido disco che ascoltavo quando avevo vent’anni. Ed è, ancora, una bellissima sensazione.