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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
28/10/2018
Apologia del pregiudizio
Con un’appendice sullo stato sociale
L'illusione della libertà e delle menti aperte: riflessioni più inutili che inattuali su un articolo e su un post.

L’articolo è questo: https://offtopicmagazine.net/2018/10/16/offpost-di-offtopic-musica-di-cittadinanza/, l’autore è l’amico e “collega” Simone Nicastro.

Il post (su Facebook) è invece mio, e recita così: “Ho ascoltato il nuovo album dei Subsonica. Poi ho vomitato. Come ai vecchi tempi”.

I due eventi fanno la loro comparsa sul web a poche ore di distanza: non v’è alcun nesso o collegamento fra loro. Almeno nelle intenzioni dei due autori - perché poi, come spesso accade sui social, le cose si amalgamano, si mescolano, si impastano fino a perdere il senso originario e assumere nuovi, talvolta anche stimolanti significati.

Musica di cittadinanza – questo il titolo dell’articolo di Simone – infila sarcasticamente il dito in una piaga purulenta e secolare con la quale una parte del genere umano deve convivere almeno da quando è nata la parola (e il l’idea di) ARTE; forse anche da prima, a ben pensarci, forse addirittura da quando è nata la parola (e l’idea di) MORALE (nell’accezione filosofica del termine). Tuttavia, seguendo il percorso à rebours nella Storia dell'umanità per individuare l’esatta origine della piaga, ci si smarrirebbe in labirinti – filosofici: appunto - e astrazioni concettuali tanto noiose quanto plausibilmente inconcludenti. Prendiamo semplicemente atto, quindi, dell’esistenza di questa piaga, che la saggezza popolare ha volgarizzato nel celebre adagio “de gustibus non est dispuntandum”, e che implicitamente porta in grembo un numero pressoché infinito di declinazioni e ramificazioni. Una di tali ramificazioni – questo mi pare di cogliere, tra le altre cose, dall’articolo – è la libertà di ascoltare e di farci piacere quello che cazzo ci pare, senza operare pregiudizialmente distinzione alcuna tra musica del passato e musica del presente. Musica di cittadinanza esorta, in estrema sintesi, ad approcciare il nostro tempo con la “mente aperta”.

Un terzo tema nasce invece da alcuni commenti al mio post sui Subsonica, ed è il tema “generazionale”; il quale, pur non essendo esplicitamente citato nell’articolo di Simone, può essere letto come sottotesto. Immagino che tutti possiate comprendere come queste tre tematiche (libertà di ascolto, mente aperta e fenomeno generazionale) siano profondamente interconnesse, e che per scandagliarle a fondo servirebbero altrettanti tomi da almeno uno paio di chili cadauno. Mi proverò, dunque – pur non possedendo, come noto, il dono della sintesi -, a dire la mia nel breve spazio che mi viene concesso qui. E comincerò col dire che “libertà” e “mente aperta” non sono che umane, troppo umane illusioni.

La mia mente, ad esempio, non è così aperta da pensare che ogni minuscola cagata di piccione debba essere analizzata, problematizzata, financo inquadrata culturalmente o a livello fenomenologico; non amo masturbarmi su ogni “fenomeno di massa” e non mi sforzo di comprendere l’inutile (ciò che ritengo personalmente tale, ça va sans dire). E questo – lo dico apertamente – è un grosso limite da parte mia. Perché so che invece dovrei in qualche modo sforzarmi di farlo. Ma so anche che alla fine giungerei alla medesima conclusione di partenza, ergo preferisco risparmiare tempo ed energia. Però una domanda che spesso mi pongo è questa: che cosa significa avere una “mente aperta”? Come si fa a trasformare la propria mente in una mente aperta? E, soprattutto, è possibile? Possiamo davvero sbarazzarci in piena consapevolezza di tutti i condizionamenti cui veniamo costantemente e spesso inconsciamente sottoposti nel breve, illusorio dipanarsi della nostra vita, e inseguire il mito dell’oggettività? E se la “mente aperta” -  mitizzata, assieme al concetto di "futuro", fino a farne la nuova religione - dell’uomo moderno e cosmopolita, fosse un intralcio alla nostra capacità critica così come il "futuro" si è trasformato in un ostacolo al nostro sviluppo?

Trovo immensamente lodevole qualsivoglia tentativo di essere aperti alle novità, di turbare e mettere in discussione la serena sicurezza del proprio gusto personale, a patto che ciò non si trasformi in pose da buonismo paternalistico o nella “moda” dell’essere a tutti i costi al passo coi tempi. Vedete, se io fossi il condirettore di una rivista di musica, letteratura e cinema (risate), vieterei a tutti i redattori e collaboratori l’uso di certi termini, come “bravi”, “suonano bene”, “bella voce” e simili. Che cazzo vuol dire che i Thegiornalisti (li scelgo come esempio guida, essendo in questo momento il massimo dell’hype, ma potrei fare altri cinquanta nomi) sono bravi? “Se hanno tutto questo successo, ci deve essere una ragione,” sento spesso dire. Ma anche no (io non penso che tutto abbia una ragione e soprattutto non penso che il successo sia frutto della razionalità di chi commercialmente è preposto a decretarlo, cioè il pubblico). Allo stesso modo, e per rimanere nell’hype, possiamo prendere come emblematico il caso dei Måneskin. “Eh ma sono giovanissimi, dai…” – e a me vien da dire: dai un beneamato. Essere giovanissimi non significa avere talento, e soprattutto non è una scusante. Il dato di fatto incontrovertibile rimane uno: il loro successo non è dovuto alla qualità della loro proposta, ma a un capolavoro di marketing (e lo stesso vale per i Thegiornalisti, seppure in modo diverso). Se mettiamo in discussione questo assunto, possiamo chiudere tutto e andare a casa, se intendiamo scovare un briciolo di qualità artistica anche nei Måneskin, se, cioè, vogliamo giustificare i Måneskin legittimando a posteriori un successo qualitativamente inspiegabile, significa che il Pensiero Unico ha fatto più danni di quanto si immagini, e allora non serve replicare[1]. Non serve perché se abbiamo la mente così aperta, non siamo più in grado di discernere. Accade cioè quello che Barry Schwartz, in ambito sociologico, ha teorizzato (e dimostrato) nel suo The Paradox Of Choice: Why More Is Less, ovvero – banalizzando - che più opzioni di scelta ci si presentano, meno siamo in grado di operare una scelta. In altre parole: più siamo "liberi", più ci rincoglioniamo. Se tutta la musica è semplicemente musica, allora anche il disegnino di vostro figlio di quattro anni ha la stessa importanza de L’urlo di Munch o di Guernica di Picasso. Certo, per voi ha la stessa importanza, forse anche di più. Ma, mettetevi il cuore in pace, non è Arte.

Io ascolto tantissima musica di consumo, musica usa e getta, chiamatela come vi pare. Mi piace un sacco. È divertente, spassosa. Ha persino effetti benefici sull’umore, alle volte. L’altro giorno mi sono ascoltato per intero l’album Steps In Time d(e)i King e immediatamente dopo Scum dei Napalm Death. Mentre scrivo, nel lettore sta girando Joy As An Act Of Resistance, l’ultimo fantastico disco degli Idles, e sto già pensando se dopo ascoltarmi Masseduction di St. Vincent o Plunge di Fever Ray - ma potrebbe starci anche In C di Terry Riley, perché no? (Se vi interessa, chiedete e vi farò poi sapere).

Se esiste una musica di cittadinanza è, a mio avviso, quella che nel simpatico mondo immaginato da Simone viene “vietata”: Trap (nostrana), ItPop, Indie, la musica dei Talent Show. Voglio dire, se non è musica da amministrazione pubblica quella che esce da X-Factor, che cosa lo è? L’Indie non è forse ormai un marchio depositato come il “bio(logico)”? L’ItPop non è forse un’etichetta che sta appiccicata con fatica a qualche emulo di Battisti o di certo Battiato o di “chissà chi altro ancora”? E la Trap non è forse l’ennesima, triste conferma del provincialismo artistico e culturale in cui l’Italia è sprofondata dopo la Seconda Guerra Mondiale?

(Sto per concludere, non preoccupatevi).

Rimane da dire sul tema “generazionale” – ma che cosa dire senza cadere nelle solite, atroci banalità? Vogliamo davvero ancora disquisire su impegno e disimpegno? Ha senso confrontare i cantautori dei Settanta coi poppettari di oggi? De André mi ha sempre annoiato a morte e allo stesso modo mi annoiano a morte i Subsonica. Per una mera questione anagrafica, questi ultimi dovrebbero essere uno dei gruppi italiani che hanno forgiato la generazione a cui appartengo. Se è così, in questa generazione, io non mi riconosco. Così come non mi riconosco nei Marlene Kuntz, negli Aferhours, o in Jovanotti e Ligabue. Se vogliamo dirla tutta, fatti salvi un paio di casi non mi riconosco in nessun artista, “generazionale” o meno, italiano. Forse perché essendomi musicalmente formato negli anni Ottanta, epoca in cui l’esterofilia era quasi un imperativo categorico, ho sempre colto nei musicisti nostrani quell’alone provinciale e derivativo che ancora oggi domina il mercato discografico tricolore, il che potrebbe anche essere classificato come uno stupido pregiudizio da parte mia, nondimeno, così come ho sempre pensato che bisognerebbe salvare il progresso dai progressisti, l’ecologia dagli ecologisti e l’umanità dagli umanitaristi, rimango fermamente convinto che si debbano salvare taluni pre-giudizi dall’oggettività sommaria. I miei riferimenti generazionali sono oltre i nostri confini. Molto oltre i nostri confini.

Quando la sovraesposizione mediatica di qualche “artista” diventa insopportabilmente stridente e si trasforma in subdola imposizione, la mia mente si chiude; è una forma di difesa atavica che mi permette di surfare sulle onde hype del momento senza annegare nella banalità bavosa e spersonalizzante della massificazione. Non c’è bisogno di nuovi finti artisti, oggi, ma di un Rick Deckard che “ritiri” gli androidi prodotti in serie dal Pensiero Unico e che ci liberi da tutta la palta che, assieme alla plastica, sta soffocando la Terra.

Se non facciamo qualcosa, tra un paio di decenni avremo una classe dirigente formatasi sulle burbanzose smoccolate di Saviano e “Una Vita in Vacanza” nelle orecchie; e porterà a termine la devastazione culturale iniziata con quella che ha edificato le proprie basi intellettuali su “una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa”, e che oggi detiene il potere[2].

 

[1] Nulla esclude che nei prossimi anni i Maneskin possano diventare davvero un gruppo qualitativamente degno di nota e allora sarò prontissimo a cambiare idea. Ma, al momento, nutro fortissimi dubbi che non voglio chiamare certezze proprio in virtù della mia “mente aperta”.

[2] Permettetemi di pensare che nessuno dei miei lettori sia così scioccamente ingenuo da credere ancora che il “potere” sia oggi una questione politica.