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REVIEWSLE RECENSIONI
19/11/2018
Muse
Simulation Theory
Col loro ottavo album i Muse intraprendono un viaggio nella fantascienza anni ’80, senza però trovare mai la rotta giusta.
di Andrea Di Blasi

Anticipato già nel 2017 da “Dig Down” e poi nel corso di quest’anno, nell’ordine, da “Thought Contagion”, “Something Human”, “The Dark Side” e “Pressure”, il 9 novembre è finalmente uscito l’ottavo album in studio dei Muse, “Simulation theory”.

In tutti gli album dei Muse, nel corso della loro ormai ventennale carriera, si è sempre avvertita sullo sfondo la presenza, più che di semplici ispirazioni, di figure ben precise, solo per citarne alcune: agli inizi dei Radiohead di “Ok computer”, poi dei ‘veri’ vecchi Queen (vedi la barocca “Survival”, inno ufficiale dei giochi olimpici di Londra 2012), mentre adesso è la volta del cinema di fantascienza anni ’80.

Già la copertina di “Simulation theory” riporta chiaramente e volutamente alla locandina dell’ultima fatica ‘fantascientifica’ di Steven Spielberg, “Ready player one”, uscito nei cinema appena qualche mese fa, pellicola che a sua volta tributava, con mille riferimenti, i capolavori di genere che, giusto per citarne un paio, spaziavano da “Ritorno al futuro” a “Blade Runner”.

L’album inizia con “Algorithm”, canzone dal lungo intro musicale in cui batteria elettronica e basso sintetizzato scandiscono il ritmo, con la voce di Matt Bellamy che entra a più di un minuto e mezzo dall’inizio, con contrappunti di strings che ne caratterizzano l’atmosfera, rendendola apocalittica per tutta la durata.

Si va avanti con “The Dark Side”, probabilmente la canzone migliore dell’album, già pubblicata come singolo in agosto: qui siamo davanti ai Muse più classici, ai fans più affezionati piacerà sicuramente ed in effetti il risultato non è male.

Si prosegue quindi con “Pressure”, singolo pubblicato in settembre, in cui protagonista è la chitarra di Bellamy con i suoi continui riff, armonizzati però purtroppo con dei synth brass che fanno toccare ai tre del Devon vette di kitsch mai raggiunte prima.

L’inizio della successiva “Propaganda” riporta già nei primi secondi (ma soltanto lontanamente, sia chiaro) alle atmosfere elettroniche di “Undisclosed Desires”, ma poi sfocia tutto in folli variazioni di una bruttezza imbarazzante, che lasciano alquanto interdetti: peccato, perché le strofe, in cui aleggia il fantasma di Prince, suonano assolutamente bene.

La seguente “Break to me”, a sua volta, non lascia proprio traccia, se non per la chitarra di Bellamy che nell’ultimo minuto ricorda quella di Tom Morello.

Si arriva quindi a “Something Human”, che personalmente, sin da quando è stata pubblicata come singolo a luglio, non ho assolutamente digerito, anzi credo che ad oggi sia uno dei peggiori pezzi che i Muse abbiano mai pubblicato: l’inizio sfiora il folk (!), affidato alla chitarra acustica, poi entra il synth, nel finale arriva l’organo… quante cose, troppe, senza una direzione ben precisa.

Anche la successiva “Thought Contagion”, singolo pubblicato in febbraio, non sembra essere all’altezza del loro passato: tempo fa un brano così sarebbe stato probabilmente escluso dalla setlist definitiva dell’album.

Stesso discorso può essere fatto per “Get Up and Fight”, che potrebbe anche sfiorare la sufficienza, ma alla base comunque non sembra esserci l’ispirazione dei giorni migliori, più che altro sembra esserci tanto mestiere, sfruttando schemi ai Muse già noti, così come avviene anche con “Blockades”, in cui tornano cose del loro lontano passato (vedi “Bliss”, ma senza nemmeno minimamente sfiorare l’eccellente risultato finale di quest’ultima).

Il finale è affidato a “Dig Down”, pubblicata addirittura come singolo a fine 2017, il cui inizio con basso synth riporta immediatamente a “Madness” (così come anche tutto il resto a dire il vero, ma anche in questo caso, neanche a dirlo, tutto sembra essere semplicemente più brutto), e a “The Void”, brano di chiusura senza particolari pregi né difetti.

La sensazione che resta alla fine di tutto è che forse Matt Bellamy & co., se desideravano scrivere qualcosa che si rifacesse alle atmosfere dei fanta-thriller anni ’80, probabilmente avrebbero dovuto aspettare l’occasione giusta per firmare una vera e propria soundtrack, perché qui, visti i risultati, una buona vena creativa è assente, quasi del tutto, ovunque: le atmosfere apocalittiche che caratterizzano praticamente tutti i brani risultano spesso eccessivamente appesantite, anche a causa degli arrangiamenti forzatamente stratificati che la produzione, affidata a tanti nomi, forse troppi (tra cui Timbaland, Shellback e ad altri del genere), ha causato. Il che non ha fatto altro che favorire la costruzione di un universo in cui i Muse affrontano un viaggio assolutamente poco credibile e totalmente di plastica.