Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
10/12/2018
M.A.C.
Dividersi e ricongiungersi: l’uomo e la sua universalità
Di certo è scrittura che, condivisibile o meno, richiede l’ardua prova del misurarsi, dello scivolare, di raggiungere quel sottosuolo dove solo chi ha quella famosa coscienza ipertrofica forse potrà perdersi nelle mille domande che un simile lavoro ci lascia nel cuore. Mille. E forse non bastano nemmeno. Ora mettetevi in ascolto e poi diteci da che parte del burrone vi siete seduti.

“Di certo non è un disco ottimista, ma non avevo il fine di idealizzare il pessimismo.” (M.A.C.)

Lasciatemi dire che questo disco creerà solchi profondi, come linee di un burrone profondo sulle cui sponde siederà (per niente comodi) chi dichiarerà guerra spietata o chi invece celebrerà il gusto e l’opera d’arte. Quando sulle prime, in un pomeriggio d’estate in una Bologna assonnata ho ascoltato “Livore”, ho pensato alla forza estetica e filosofica di qualcosa che non aveva alcun interesse a compiacere critici e benpensanti ma che - come unico punto di arrivo - avesse sinceramente il bisogno di sfogare ciò che di dentro covava la vita sua. Mario Alessandro Camellini, ovvero M.A.C., scrittore, cantautore, forse niente meno di un filosofo del pensiero, qualunque sia il valore giusto da dare a questa definizione (per ora e per questo contesto preciso). M.A.C. fa il suo esordio discografico con “Un pianeta su nove” ed io vorrei far tacere le parole e che invece sedeste senza pregiudizi (promettetelo) e metteste in play (senza pregiudizi, avete promesso!!!) questo video, proprio quel singolo “Livore” di cui sopra.

La verità diviene realtà in forma canzone, in un disco prodotto da Luca Spaggiari dove un suono pop (a tratti anche leggero), proveniente da un personale sottosuolo di indifferenza verso le soluzioni più ovvie della forma canzone, accoglie con spirito di devozione e con rispetto questi proclami di filosofia del vivere in cui il nostro mette a nudo cose anche scomode da sentirci dire. Non sono propriamente canzoni, e l’intonazione, come la metrica, non è di certo devota al bel canto. E guai se fosse stato il contrario.

“La vita non è vita se solo ho bisogno di attenzioni”. Questa frase del tutto pasoliniana io la segnerei a fuoco per tutte queste nuove generazioni di finti artistici.

Ed è inevitabile che, ridotti in ovvietà e prevedibilità del futuro, dalle nostre scelte fino ai sogni più personali e privati, la vita diviene solo attesa della morte. Ed è poi la morte un concetto che in qualche modo trovo dissacrato (a mio modo di leggere la canzone di M.A.C.): come a voler reagire a questo senso di paura e di “demonizzazione” che la società dei consumi ci instilla fin dentro le ossa. M.A.C. è cosciente di averci regalato un disco che dirlo difficile è dir poco. “Un pianeta su nove” non è musica per “organi omologati”, di certo non è canzone per chi cerca il ritornello e il fischiettio a memoria. Di certo è scrittura che, condivisibile o meno, richiede l’ardua prova del misurarsi, dello scivolare, di raggiungere quel sottosuolo dove solo chi ha quella famosa coscienza ipertrofica forse potrà perdersi nelle mille domande che un simile lavoro ci lascia nel cuore. Mille. E forse non bastano nemmeno.

Ora mettetevi in ascolto e poi diteci da che parte del burrone vi siete seduti.

Ho ascoltato “Livore” per lungo tempo e sento una musica cupa, negativa, un tono di voce lamentoso che inneggia ad un noir drammatico. Eppure le tue parole, in contrapposizione persino agli arrangiamenti, sono parole di rivincita e di coscienza. Prendere coscienza per vincere la morte. Io ho letto questo… tu che mi rispondi?

Di certo in “Livore” è presente un’importante presa di coscienza, una presa di posizione accompagnata da una lucidità atipica per la natura del contenuto della canzone. Ma ahimè, non c’è alcuno spiraglio che lascia trapelare un filo di luce. La canzone è impregnata da una disperazione fine a se stessa. Nessuna redenzione, nessun desiderio rivolto ad una vita migliore. Di conseguenza la presa di coscienza di cui parlavamo è sterile, è un lamento, gonfio di rancore e di rabbia che non ambisce a nessun cambiamento. Tutto è stagnante, un cantiere abbandonato, distruzione senza alcuno slancio per alcuna ricostruzione. Non c’è la pretesa di vincere la morte e tutto ciò a lei connessa. E poi non ci può essere nulla che possa contrastare il buio che caratterizza il brano, questo perché quando scrissi il testo della canzone ero alla deriva, divorato dai miei mostri.  

Restando sul tema e ascoltando tutto il disco ti chiedo: pessimista o reazionario?

Di certo non è un disco ottimista, ma non avevo il fine di idealizzare il pessimismo. E non è neppure reazionario, è semplicemente sincero. Ho il vizietto di mettere in musica il mio vissuto, nulla di più, tutto si esaurisce qui.

Ti confesso che “Alchimia” è il brano che ho digerito con più difficoltà. Forse esteticamente il momento meno ricercato del disco. Però dietro al concetto dei profumi ci ho trovato un mondo che non riesco a contenere in una semplice domanda. Cos’è per te il profumo, ma, più di tutto, cos’è l’immagine di un profumo come sintesi di tutti i profumi? Un po’ come chiedere ad un filosofo cos’è per lui la luce bianca…

Come è facile da intuire, ho utilizzato il profumo come metafora con lo scopo di sottolineare alcuni concetti a me cari. Ma mi concentro solamente su uno. La prima cosa di certo è la ricerca di un legame fra i profumi e gli esseri umani per spiegare il perno centrale che sta alla base della nostra esistenza. Ho a cuore il concetto dell’universalità dell’uomo. Nella canzone parlo di una fragranza che racchiude tutti i profumi del negozio la quale non è riproducibile in nessun modo. Con questa metafora alludo, come ho anticipato, all’universalità propria dell’essere umano. Siamo tutti diversi, ma allo stesso tempo sommando l’essenza di un uomo con quella di un altro uomo senza mai interrompere questa operazione matematica giungiamo solamente alla sua universalità, che mai potrebbe appartenere ad un solo essere umano. Ecco, il profumo di cui parlo è l’universalità umana, a cui, purtroppo, in pochi concedono la propria attenzione.

Ma parliamo anche di musica. Non è certo la melodia quella che cerchi e che insegui con il testo. Eppure a sostegno della tua letteratura c’è una sonorità ben strutturata, dal blues al pop rock. Come sono state concepite, scritte e definite queste basi musicali? Ma soprattutto come hai lavorato per inserirci i testi?

Non seguo alcun tipo di schema, mi metto al pianoforte, suono e su un foglio di carta scrivo le liriche e improvviso. Incastro casualmente le parole con la musica, e nasce così la linea vocale. Ad esempio, “Livore” l’ho scritta in dieci minuti. Altre canzoni hanno subito una incubazione maggiore. Ma sinceramente ogni canzone nasce da meccaniche diverse. Tutt’altra storia per gli arrangiamenti, che sono il frutto del duro lavoro del mio produttore, Luca Spaggiari.

Chiudo. Pensi che dietro un testo ci debba essere una comprensione concreta o lasci che le immagini risultino aperte e libere di interpretazione? Insomma, vuoi che il pubblico si allinei a te o vada per la sua strada?

Io sono estremamente chiaro e crudo nei testi che scrivo, e tale crudezza non so se lascia grande spazio di interpretazione. Però, se una canzone viene vissuta in modo differente da chi ascolta è un grande onore di cui ne gode l’autore.