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REVIEWSLE RECENSIONI
Why Hasn't Everything Already Disappeared?
Deerhunter
2019  (4AD)
INDIE ROCK ALTERNATIVE
8/10
all REVIEWS
18/01/2019
Deerhunter
Why Hasn't Everything Already Disappeared?
La verità è che il ritorno dei Deerhunter, a più di tre anni di distanza da “Fading Frontier” (mai così tanto tempo era passato tra un disco e l'altro) ha il solito, caldo sapore della rimpatriata, di quelle cose che conosci a memoria ma che ogni volta ti sembrano nuove.

Si può anche scrivere che “Nostalgia Is Toxic” e poi realizzare un disco che affonda le radici in un suono retro, dai Beatles a quelle robe lì. Si può affermare in maniera netta che “odio la psichedelia”, dopodiché flirtare senza troppi problemi con ritmi languidi e cantilene ipnotiche.

La verità è che il ritorno dei Deerhunter, a più di tre anni di distanza da “Fading Frontier” (mai così tanto tempo era passato tra un disco e l'altro) ha il solito, caldo sapore della rimpatriata, di quelle cose che conosci a memoria ma che ogni volta ti sembrano nuove.

Reinserire la tradizione nella contemporaneità, mescolando Kraut, Pop, psichedelia e rock classico in un insieme coeso e dinamico al punto tale da perdere di vista le singole influenze, è sempre stata la strategia che la band di Atlanta ha escogitato per inserirsi da vincente in un mercato musicale sempre più saturo e dove la stessa etichetta “Indie”, che pur allora significava ancora qualcosa, appariva sul punto di non significare più nulla.

Abbandonate le asperità e le sperimentazioni degli esordi, riservato il loro lato più eclettico a “Double Dream of Spring”, la recente uscita in cassetta fatta apposta per gratificare i loro fan con un oggetto di culto in pieno stile retromania, Bradford Cox e compagni riprendono da dove avevano lasciato, con dieci canzoni che accarezzano il Pop sognante e a tratti spensierato che già aveva contribuito a plasmare il disco precedente e va anche parzialmente ad intercettare le scorciatoie melodiche del capolavoro “Halcyon Digest”.

“Why Hasn't Everything Already Disappear”, titolo perfetto per uno come Cox, che ha sempre ammesso di preferire la solitudine al di sopra di tutto il resto, è un lavoro che, sempre a detta del frontman e principale mente del quintetto, è nato da un lungo processo di elaborazione che ha messo insieme pezzi nuovi e idee risalenti addirittura al periodo di “Cryptograms”.

Un disco che appare molto poco influenzato dal linguaggio del rock, che viene scritto con nelle orecchie lunghi ascolti di Prokofiev, Stravinsky, compositori moderni di musica per clavicembalo e addirittura qualcosa di Tina Turner (“Non per imitarne la voce, però!” si è affrettato a smentire Cox con il solito humor che lo contraddistingue).

Ed è proprio un clavicembalo ad aprire le danze: l'attacco di “Death in Midsummer”, che è stato anche il primo brano ad uscire come singolo, è la cosa più tipicamente Deerhunter che si potesse immaginare, preludio ad un up tempo piacevole e confortante, l'ideale per rassicurare i fan sul fatto che nulla davvero è cambiato, nonostante la lunga assenza dalle scene.

Gli Upbeat paiono essere la soluzione maggiormente adottata in questo lavoro: anche la successiva “No One's Sleeping” si muove su questa falsariga, un classico indelebile fissato nel tempo in poco più di tre minuti, un brano solare e spensierato che è però ispirato all'omicidio di Jo Cox, la parlamentare britannica uccisa nel 2016 da uno squilibrato anti Brexit. Un episodio che scioccò il mondo intero ma che fu anche archiviato in fretta, segno di tempi troppo istintivi e frenetici per poter incoraggiare un qualche tentativo di giudizio. Un episodio che oggi diventa il paradigma di un album che sembra, per una volta, rivolto verso il mondo esterno e non più verso l'universo intimo del suo autore, come spesso era accaduto in passato.

Possono anche aver realizzato il ritratto di un mondo confuso e alla deriva ma allo stesso tempo la sicurezza con cui si destreggiano tra melodie semplici ma ogni volta straordinariamente azzeccate, dice di un gruppo che sa ancora scrivere e che non ha intenzione di smettere di farlo, nonostante l'impressione che abbiano già dimostrato tutto quello che potevano.

Già, ma siamo proprio sicuri che sia così? Perché se è vero che “Element”, “Futurism” o “Plains” sono canzoni che ormai sanno scrivere ad occhi chiusi, è difficile ascoltarle senza emozionarsi e senza ammettere che “sarà pure la solita roba ma non ne abbiamo mai abbastanza”.

Per non parlare poi di “What Happens to People” vero e proprio capolavoro dell'album e forse tra le migliori dieci canzoni mai scritte da loro: una ballata nostalgica tra “Pet Sounds” e “Rubber Soul”, zuccherosa ma neanche troppo, che tocca l'apice nella melodia vocale e nel rallentamento ad arte del ritornello, roba che da sola basterebbe ad incoronare Bradford Cox tra i più grandi songwriter della sua generazione. 

Disco che è tra i loro più accessibili, si diceva, ma che non disdegna qualche uscita dal seminato: “Detournement”, una sorta di narrazione allucinata e sbilenca, francamente non indispensabile; oppure “Tarnung” (che in tedesco significa sia essere invisibili che camuffarsi), lenta e corroborata dai fiati; o ancora la conclusiva “Nocturne”, sei minuti in cui si alternano atmosfere barrettiane e divagazioni strumentali dal sapore psichedelico, che ci proiettano direttamente a quello che fanno sul palco, proprio in chiusura di concerto, quando si fanno prendere la mano e il tempo sembra dilatarsi all'infinito.

Intervistato in questi giorni da Stereogum, Bradford ha chiesto al giornalista, ironico ma forse neanche troppo: “Chi pensi che avrà il coraggio di ascoltare questo disco dall’inizio alla fine? Le singole canzoni può darsi, ma tutto un album, oggi chi lo ascolta più?”.

È vero in linea generale, forse. Ma un lavoro del genere, conciso nella durata (37 minuti appena) snello nei contenuti, magistrale nel suo saper ricamare cose splendide a partire da due o tre elementi essenziali, pare l'ideale per riportare in auge il concetto di album come unico viaggio con un inizio e una fine: difficile davvero premere play e fermarsi a metà, provateci se ne siete capaci.

“Why Hasn't Everything Already Disappear” è il miglior ritorno che si potesse sognare per i Deerhunter. Una band che potrà anche apparire obsoleta, oggi che il mondo da cui è nata appare irrimediabilmente in crisi, ma che quando c’è da insegnare a scrivere riesce ancora a dare lezioni a chiunque. Una band di cui c’è bisogno più che mai, dunque. Peccato solo che in Italia, a meno di un miracolo, non ci sarà modo di vederli.