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REVIEWSLE RECENSIONI
11/02/2019
Balthazar
Fever
Non c’è una virgola fuori posto in queste undici canzoni che producono il classico effetto ciliegia: una tira l’altra e smettere di ascoltarle è pressoché impossibile.

Se questo disco fosse stato prodotto in terra D’Albione e fosse opera di un gruppo di indie fighetti londinesi, è probabile che per qualche settimana le riviste specializzate non parlerebbero d’altro. Invece, Fever, quarta fatica della band originaria di Gent, se da un lato spopola in terra natia (è gia volato in cima alle classifiche nazionali), nel resto del mondo sta passando, inspiegabilmente, quasi sotto silenzio.

D’altra parte i Balthazar arrivano dal Belgio, terra che, ingiustamente, possiede l’appeal di una cena a base di pastina e mela cotta, e la cui scena musicale vede come unico nome di spicco i dEUS. Ed è un peccato, per questo disco, non solo è il migliore dell’ancor breve carriera dei Balthazar, ma è di certo una delle più interessanti uscite discografiche di questo primo scorcio del 2019.

Soprattutto, Fever, da dipendenza, coglie di sorpresa al primo ascolto, quando ciò che salta immediatamente all’orecchio è la genialità di certi arrangiamenti, e poi, successivamente, stende al tappeto con melodie che non lasciano scampo anche a orecchie, come quelle del sottoscritto, che sono più allenate allo sferragliare del rock che alle suggestioni zuccherine del pop.

Non c’è una virgola fuori posto in queste undici canzoni che producono il classico effetto ciliegia: una tira l’altra e smettere di ascoltarle è pressoché impossibile. L’anima pop svelata in ritornelli a presa immediata, la veste formale di un funk sornione e dalle movenze dandy, gli arrangiamenti votati alla regola “less is more”, fanno di Fever un disco all’apparenza semplice, e tuttavia ricco di sostanza.

Il canovaccio funziona a meraviglia in tutti gli undici episodi del lotto: una goduriosissima linea di basso è l’innesco intorno al quale fioriscono, improvvise e inaspettate, leggerissime partiture di chitarra, coretti irresistibili, sussurri di sax, vapori di tastiere, il tutto legato dalla bella voce da crooner di Maarten Devoldere.

Canzoni che al glamour preferiscono la posa del dandy, non sfrontata e ammiccante però, ma semmai quello sguardo languido e rilassato da bicchiere della staffa prima di andare a dormire, quando fuori, le prime luci dell’alba, trasformano in ricordo il volto di quella splendida donna con cui hai ballato tutta la notte.

Difficile indicare un brano che meriti più di altri, perché il livello della scaletta è tutto altissimo, ma il ritornello di Wrong Faces e i suoi echi mediorientali, il falsetto ruffianissimo di I’m Never Gonna Let You Down Again, gli anni ’60 e il r’n’b sintetizzati in Wrong Vibration, le nostalgie eighties di You’re So Real, accarezzate da poche note di un sax decisivo come un calcio di rigore al 90°, sono autentiche gemme destinate a durare nel tempo.

Chi mi legge da tempo, sa che probabilmente sono il meno indicato a recensire un disco di pop, perché le mie sfere di competenza sono ben altre. Tuttavia, proprio per questo, quel voto alto che trovate a fianco della recensione, non nasce dal mio gusto personale, ma dall’onestà intellettuale con cui si dovrebbe sempre recensire la buona musica, a prescindere dal proprio background. E per questo che non temo di sbilanciarmi affermando che Fever è un grandissimo disco, e che, se fosse già dicembre, entrerebbe di diritto nella mia top ten dell’anno. Imperdibile!