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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
11/02/2019
14 Again
Live report Good Charlotte, Sleeping With Sirens, Boston Manor e The Dose - Alcatraz, 3 febbraio 2019
Abbiamo tutti avuto quattordici anni. C’è chi li ha avuti quindici anni fa, chi venti e chi li ha adesso. Tutti, almeno per un momento, ci siamo sentiti inadatti, arrabbiati, sensibili, feriti, con il cuore a pezzi o con un terribile senso di ingiustizia addosso. E la voglia di rivalsa.

Di conseguenza, tutti abbiamo avuto la necessità di trovare qualcuno che sapesse esprimere quel genere di frustrazione malinconica ed emotiva che solo chi è adolescente (o si ricorda bene cosa vuol dire esserlo stato) può capire. Quel qualcuno, in uno dei casi migliori, è stato qualche gruppo di ragazzi americani o inglesi. Qualche band che, vissuta quella stessa frustrazione e disagio, ha messo tutto in musica, passando dal rappresentare gli sfigati del proprio liceo all’essere il punto di riferimento per degli altri ragazzini, che li hanno eretti a stampella dei loro cuori.

Questi ragazzini, adolescenti più o meno cresciuti, sono stati il pubblico del concerto che l’Alcatraz ha ospitato il 3 febbraio. Una folla eterogenea in età (dalla trentina abbondante ai quindici anni), ma accomunata dallo stesso sguardo negli occhi. Quello di chi ha avuto bisogno di quel tipo di messaggio che solo un certo tipo di musica ha saputo regalare. Quello di chi magari ora ha anche altri ascolti e un'altra vita, ma non ha mai dimenticato chi ha saputo tirargli su il morale nel momento del bisogno, tenergli compagnia nelle giornate buie e fatto avere il coraggio di reagire in modo positivo, costruendosi una propria identità e un proprio modo di guardare ai piccoli e grandi eventi e ingiustizie delle proprie vite.

La band, invece, è sicuramente quella dei Good Charlotte, che dal 2000 con l’omonimo disco, al 2002 con The Young and The Hopeless, al 2004 con The Chronicles of Life and Death, ha saputo farsi amare da milioni di ragazzini, che ora grandi non dimenticano le ore passate insieme a ricucirsi le ferite, saltando e cantando in camera e le parole di chi ha saputo far loro ritrovare sempre il sorriso.

Ma quello che ha significato questa band per una generazione, può essere valido anche per quella successiva, che a sua volta può dare un senso a quei sentimenti ascoltando band come gli Sleeping With Sirens, i Boston Manor o, chi lo sa, anche i The Dose.

Il duo californiano dei The Dose è stato il primo a scaldare la platea con il suo grunge à la Nirvana. Indio alla voce e chitarra (Gibson diavoletto prima, Fender nero dopo) e Ralph alla batteria, posti ai lati opposti del palco e separati da diversi metri, ma uniti in un suono preciso, diretto e disciplinato, costruito insieme con passione e portato con umiltà al piccolo pubblico che si stava radunando rapido sotto il tetto dell’Alcatraz, da poco uscito dalla lunga coda in attesa fuori dal locale. Una band che saprà far parlare di sé per il loro impegno e non solo per il fatto che Indio sia il figlio del noto attore Robert Downey Jr.

I Boston Manor sono invece i primi a venire accolti come una band realmente attesa. Dalla coppia di ragazze spagnole che si sentono urlare entusiaste i cori delle loro canzoni, al trio di ragazzi che si sente dichiarare che sono venuti anzitutto per loro, al primo pogo della serata, capitanato da un giovane ragazzo dal berretto arancione che ha inaugurato pure il primo e unico stage diving della serata. Il gioco cromatico di rosso (telone e luci al neon sul palco) e nero (abiti e passamontagna del logo) ha iniziato a creare da subito la giusta atmosfera, incuriosendo anche il pubblico meno preparato alla loro performance.

Il nuovo e notevole disco Welcome To The Neighbourhood (che potete trovare recensito qui e di cui la band ha proposto ben sei pezzi su sette in scaletta) non era facile da rendere dal vivo e alcuni limiti dati dalla poca esperienza dei ragazzi si sono visti. La sinergia tra gli strumenti e la voce avrebbero potuto essere gestite con più attenzione, e hanno scontato il prezzo di una passione e una voglia di fare e di esserci che non sempre potevano sposarsi al meglio con le atmosfere cupe ed eleganti del nuovo album. Nonostante ciò, sono riusciti in solo mezz’ora a conquistare il pubblico, che da poche decine di fan ha subito potuto contare su decine di nuovi ragazzi pronti a saltare, cantare e seguire tutte le richieste del giovane frontman Henry Cox. La disponibilità della band, inoltre, è stata ammirevole, visto che prima di salutare il suo pubblico ha anche proposto a chi lo volesse di cercarli al banchetto. Alla faccia della precisione quindi, la proposta più inglese presente in scaletta ha realizzato egregiamente il suo compito: quello di distinguersi e di guadagnare, per certo, qualche nuovo seguace.

Dei sette pezzi suonati, con qualunque arrangiamento vengano proposti, emergono sempre al meglio le bellissime “Bad Machine”, “England’s Dreaming” e “Halo”.

Gli americani Sleeping With Sirens sono invece già più noti al pubblico italiano che, tra le date passate, ha già avuto modo di conoscerli al live che il maggio scorso è stato ospitato ai Magazzini Generali di Milano. A differenza della precedente performance, però, grazie ad un’acustica decisamente migliore e ad un palco di dimensioni maggiori, la band capitanata dall’acutissimo Kellin Quinn ha dato il suo meglio. Il pubblico, di conseguenza, è stato coinvolto in toto: dall’ottima resa delle canzoni a livello strumentale, alle prodezze vocali di Kellin, al seguire sul palco l’espressiva teatralità del chitarrista Nick Martin.

Dieci pezzi in scaletta tratti principalmente da Madness (2015), tra cui la bellissima “Better Off Dead”, oltre che dai loro precedenti successi Feel (2013) e Let’s Cheers To This (2011), mentre solo uno a testa i brani scelti dall’ultimo Gossip (2017) e dal primo With Ears To See and Eyes To Ear (2010).

Dulcis in fundo, i Good Charlotte hanno concluso la serata con un’ora e mezza filata di successi, tratti principalmente dallo storico (e non solo in senso anagrafico) The Young and The Hopeless (sette pezzi) e dall’ultimo Generation Rx (2018 - cinque pezzi), anche se il pubblico di cui sopra ha gradito con particolare vigore anche i quattro pezzi tratti da The Chronicles of Life and Death (“I Just Wanna Live” e “Predictable”) e da Good Charlotte (“Little Things” e “WoldorfWorldwide”).

I ragazzi del Maryland hanno portato al pubblico italiano, dopo numerosi anni di assenza dai palchi della penisola, tutta l’energia e la dolcezza di cui sono stati capaci. Hanno infatti spesso accompagnato i pezzi scelti a piccoli e onesti monologhi, in cui hanno raccontato ai kids vecchi e nuovi presenti quanto fossimo tutti cresciuti insieme anno dopo anno e quanto fosse stata per loro importante la band. Hanno parlato con sincerità e in maniera semplice e accorata di come si fossero conosciuti al liceo l’uno con l’altro e di quanto ancora oggi tutto questo sia fondamentale, perché continua a ricordare loro quanto ha significato per le loro vite scegliere la musica e trovare una strada di riscatto dalla vita di provincia, povertà e problemi familiari che li ha accompagnati per tutta la loro adolescenza.

Alla faccia del semplice pop-punk da ragazzini o della notorietà raggiunta con il periodo emo-pop-punk della metà degli anni Duemila, i Good Charlotte hanno dimostrato uno spessore, un valore e una sincerità per nulla scontate, che non possono che far rivivere sotto una luce ancora più positiva le ore trascorse con i loro album nei propri quattrodici anni e illuminare di una luce nuova anche le loro nuove produzioni.

Joel e Benji hanno promesso che non faranno attendere il pubblico italiano ancora così tanti anni per una prossima data. E se sono stati onesti anche solo la metà di quanto hanno dimostrato sul palco, siamo certi che manterranno la parola data.