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REVIEWSLE RECENSIONI
19/03/2019
Giorgio Poi
Smog
La storia in sé è abbastanza curiosa: Giorgio Poi è probabilmente il cantautore più talentuoso della sua generazione, uno che potrebbe mangiarsi a colazione ogni giorno i vari Calcutta, Gazzelle, Canova e compagnia bella.

Eppure, per accorgerci finalmente di lui, abbiamo dovuto attendere che fossero i featuring e le collaborazioni varie a dargli il lustro che avrebbe meritato da subito. Difficile tenere a mente tutto ma ad occhio e croce, “Missili” di Frah Quintale e “Camel Blu” di Carl Brave sono stati quelli mediaticamente più fortunati. Poi abbiamo avuto il lavoro di songwriting su “Prima di partire”, brano che ha dato a Luca Carboni. O la produzione artistica ne “La Malanoche” di Francesco De Leo. E ancora, la date dal vivo nella band di Calcutta, per il quale ha suonato anche la chitarra sull’ultimo “Evergreen”. E non dimentichiamoci dei Phoenix, che dopo averlo visto in azione prima di loro a Milano, lo hanno voluto ad aprire alcuni concerti del loro tour americano.

Insomma, se l’esordio solista dell’ex Vadoinmessico era passato via un po’ così, incensato dalla critica ma non troppo considerato dal pubblico, nei mesi successivi del talento di Giorgio Poi si sono accorti in moltissimi, al punto che questo “Smog” era diventato uno degli album più attesi di questo primo scorcio di 2019.

Che poi, se andiamo a vedere da vicino, si tratta di un’ottima strategia (non è certamente stato programmato ma è per dire): farsi conoscere negli ambienti che contano, fornendo il suo contributo ad artisti che hanno sonorità diverse dalle proprie, per poi mettere tutto al servizio della propria carriera solista.

Una carriera che, se andrà avanti così, non sappiamo davvero dove potrà condurlo. “Smog” è un grande disco, in effetti, un lavoro che, all’interno di una concisione ormai divenuta proverbiale, lascia il segno in maniera indelebile, consegnandoci un lotto di canzoni che aggiornano la tradizione cantautorale di cui in tanti si gloriano tutti i giorni, rendendola fresca ed appetibile anche per chi è venuto su a colpi di It Pop e Trap.

Formula di scrittura abbastanza snellita, che lascia da parte le sperimentazioni (si fa per dire) e le asperità strutturali, per concentrarsi su canzoni semplici, leggere nelle sonorità, con tastiere e chitarre acustiche a prendersi la maggior parte delle quote in sede di arrangiamento, ed una sezione ritmica come sempre ispiratissima (Matteo Domenichelli e Francesco Aprili sono dei fuoriclasse assoluti in quest’ambito). Colpisce come sempre il livello delle melodie vocali, il crescendo progressivo delle armonie, il modo in cui il nostro confeziona ritornelli indovinati, che dal vivo sarà un piacere cantare a squarciagola.

C’è però una precisazione da fare. Qui non siamo dalle parti di un piacevole usa e getta musicale. Non siamo dalle parti di emozioni a buon mercato e grezzume provinciale, un po’ cinico, un po’ autoironico, per solleticare i pruriti dell’adolescente di turno.

Questa roba è leggera, certo; è orecchiabile, è popolare. Ma lo è nella maniera in cui lo erano anche Battisti e Lucio Dalla, o Fabio Concato, artisti a cui questo lavoro guarda neanche troppo velatamente. C’è sostanza, in questi brani, c’è una forza che nasce dall’essere concepiti sì come intrattenimento, ma a partire da una consapevolezza maggiore, sia sull’esistenza che sui mezzi retorici a disposizione per esprimerla.

Per cui già l’iniziale “Non mi piace viaggiare”, con la sua carrellata di mezzi di trasporto, ognuno col suo lato negativo bello in evidenza, da una parte sembra fare a pezzi la proverbiale e atavica esterofilia di noi italiani, amplificata negli ultimi tempi dalle nuove generazioni, che del cosmopolitismo hanno fatto spesso un distintivo da esibire con orgoglio, peraltro spesso senza capirne appieno le implicazioni; dall’altra parte però, cantato da uno che è cresciuto a Novara e ha vissuto in giro tra Milano, Londra e Berlino, assume anche un tono ironico e viene dunque spontaneo domandarsi se non ci stia pigliando tutti per il culo.

Forse aiuta a rispondere “Stella”, per quanto mi riguarda uno dei vertici del disco, assieme a “Solo per gioco” e “Napoleone” parte di un trittico centrale di assoluta perfezione. “Così, con il mento sparato nel cielo, un ragazzo ha scoperto una stella. E guarda come brilla, fortuna che c'è, ma è un pezzo di ferro con su scritto Easyjet”. Distruggere la visione mitica dell’infanzia, fare a pezzi l’idea romantica del cielo come porta spalancata sull’infinito, per dire non tanto che lo spazio ormai è divenuto prosaicamente di proprietà dell’uomo, quanto piuttosto far notare, ironicamente ma non troppo, che il Low Cost, che di suo potrebbe anche essere una buona idea, ha però definitivamente ucciso tutto quel fascino insito nell’atto stesso del viaggiare. E se non ci si può fidare neppure del cielo, parafrasando l’ultimo ritornello, allora di che cosa ci fidiamo?

Non è che siano temi nuovi, intendiamoci. È che sono trattati senza facili ironie, senza banalità e soprattutto con uno stile di scrittura da autore vero, non certo come uno che gioca con le parole solo per il gusto di divertirsi.

Prendete “Napoleone”, per esempio: a quale “tu” si rivolge, nel suo cercare di fare i conti col destino, con la vita? E chi è il Napoleone del titolo? Un’allegoria del desiderio di gloria destinato a tramutarsi in polvere? L’immagine stessa della pazzia? Non ne ho idea ma già il non saperlo è affascinante, abituati come siamo a canzoni che al primo ascolto hai già capito tutto e al terzo non sai più che fartene.

Invece qui basta la prima strofa ad evocare un mondo, a creare un senso di sospensione che poi la melodia valorizza in pieno: “Quanto dura una novità. Se dura il tempo di una scintilla appena brilla se ne va. E chi è rimasto a guardare il vuoto, lo sa. Ma se ti va di stare al gioco, senza perdere mai, con il cappello da capitano, sei in un mare di guai.”.

Mettiamola così: “Napoleone” è il brano che Calcutta scriverebbe se avesse il talento e la profondità di Giorgio Poi. E non me ne voglia Calcutta, che non ho mai fatto mistero di apprezzare, ma qui, con tutto il rispetto, siamo proprio su un’altra lunghezza d’onda.

Così come di un altro livello è “Ruga fantasma”, tastiere battistiane e incedere intriso di malinconia sognante, per un brano che è un collage di frammenti, di istantanee rubate dai cassetti della memoria, per evocare un amore finito da tempo ma ancora vivo nei piccoli dettagli del presente.

Alla fine, l’unico rimpianto che questo disco si lascia dietro è quello relativo alla sua seconda parte: la strumentale/title track da poco meno di due minuti e assolutamente priva di utilità (creare un intermezzo per un lavoro da 28 minuti è francamente assurdo), un brano, “Maionese”, stilisticamente vicino alle sue prime cose, bello ma inferiore a quanto ascoltato prima, e “La musica italiana”, scritta a quattro mani con Calcutta (guarda un po’) e uscita come singolo a novembre. Un brano che avrebbe pure delle buone intuizioni melodiche ma che risulta fin troppo approssimativo e di mestiere, con anche una buona dose di retorica sul tema “musica italiana vs musica straniera” che rappresenta esattamente il contrario della maturità e della consapevolezza dimostrate fino a quel momento. Non ero rimasto contento quando era stato pubblicato e sinceramente non me lo sarei aspettato finisse sulla tracklist definitiva.

Fosse stato tutto al livello delle prime sei (perché anche “Vinavil”, già uscita mesi fa, è un’altra traccia superlativa), staremmo qui a parlare di un capolavoro, di uno dei migliori dischi italiani degli ultimi anni. Anche così comunque, la situazione è più che positiva. Giorgio Poi si conferma un grandissimo talento e noi non vediamo l’ora di ascoltare questi pezzi dal vivo. Questo, per ora, è tutto quello che conta. Di tempo per migliorare direi che ne ha fin troppo…