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REVIEWSLE RECENSIONI
03/05/2019
Aldous Harding
Designer
“Designer” è il disco della maturità, è il disco attraverso cui Aldous Harding la sua voce l’ha davvero trovata. Proprio per questo mi sento di consigliarlo a tutti, non solo ai fanatici del genere.

Niente di più difficile, in un genere rigidamente codificato come un certo tipo di Folk di matrice americana, trovare ancora una volta un modo per catturare l’attenzione dell’ascoltatore e non dargli l’impressione di essere di fronte all’ennesimo disco in fotocopia. Problema più grave, in una fase storica in cui il cantautorato femminile, pur mostrando a più riprese un livello qualitativo invidiabile, rischia di divenire un po’ inflazionato.

Così, di fronte al nuovo disco di Aldous Harding, il terzo della sua carriera, la domanda potrebbe anche sorgere spontanea: perché dovrei mettermi ad ascoltarlo? Cos’ha lei che non posso cercare da un’altra parte?

Non sono in grado di dirlo e non credo sia questo il mio compito in tale frangente.

Di sicuro un dato c’è: “Designer” è il lavoro più a fuoco che l’artista neozelandese (oggi trapiantata in Galles) abbia mai fatto. Se i primi due mostravano un talento puro, tanto da scomodare un nume tutelare come John Parish, ma avevano anche dei momenti di stanca, con soprattutto il secondo capitolo “Party” a risultare a tratti eccessivamente cupo e ripiegato su se stesso, questo nuovo lavoro si erge fiero in tutta la sua statura, mettendo in luce una rinnovata dose di consapevolezza da parte della sua autrice.

Lo stile è sempre quello (difficilmente potevamo aspettarci il contrario) ma i vari episodi appaiono più asciutti, ben focalizzati nella struttura e negli arrangiamenti, costruiti in modo tale da risultare leggeri e godibili, con una spensieratezza che potremmo anche definire Pop.

Colpisce questo, in effetti: di come dal punto di vista degli umori, questo sia un lavoro allegro, forse addirittura spensierato. Fa strano scriverlo e contrasta senza dubbio con i testi, visionari e non del tutto tranquillizzanti, basti pensare all’apocalisse sospesa di “Heaven is Empty” o alla struggente confessione di “Damn”.

È però evidente come ci sia la voglia di lasciarsi andare, di sorridere al mondo e di non prendersi neppure troppo sul serio: non a caso nel video di “The Barrel”, che lei stessa mi ha rivelato essere una sorta di chiave di lettura per avvicinarsi al disco, la si vede ballare in una stanza, con movimenti buffi e poco eleganti, quasi (per usare le sue parole) a “chiedere scusa di essere felice”.

E sicuramente nella prima parte le atmosfere sono distese: “Fixture Picture”, coi suoi arrangiamenti scarni ed il suo piglio classicamente Folk, un po’ a la Lisa Hannigan, è senza dubbio solare e rassicurante, soprattutto nel suo bel ritornello, una delle cose più cantabili che la Harding abbia mai scritto. Stessa cosa per la title track, che a dispetto di un arpeggio iniziale cupo, che ricorda molto il primo Leonard Cohen, si apre notevolmente; oppure “Zoo Eyes”, misteriosa quanto basta ma anch’essa dotata di un refrain facilmente memorizzabile.

Nella seconda parte invece il disco si fa più riflessivo, la scrittura più alta e matura, e Aldous ci regala alcuni dei suoi brani più memorabili: sicuramente “Damn”, che è probabilmente la traccia migliore, con un pianoforte minimale a tenere su il tutto ed un tessuto sonoro che si inspessisce gradualmente, in un crescendo di grande effetto. Bellissima anche “Heaven is Empty”, anch’essa tratteggiata con pochissimi elementi, incentrata sulla chitarra, ad evocare atmosfere malinconiche e allo stesso tempo leggermente stranianti.

Un piccolo gioiello è anche la conclusiva “Pilot”, accompagnata dal solo pianoforte ed impreziosita da una notevole interpretazione vocale, che insiste sulle tonalità basse in un modo mai sperimentato in precedenza.

John Parish è ancora una volta della partita e, al di là del violino inserito in “Fixture Picture”, che sappiamo essere stato oggetto di una lunga discussione tra i due, ha saputo rimanere discretamente nell’ombra, accompagnando la Harding nella ricerca della sua voce migliore, senza appesantirla troppo con la sua personalità.

“Designer” è il disco della maturità, è il disco attraverso cui Aldous Harding la sua voce l’ha davvero trovata. Proprio per questo mi sento di consigliarlo a tutti, non solo ai fanatici del genere.