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REVIEWSLE RECENSIONI
29/05/2019
Vampire Weekend
Father of the Bride
Dopo sei anni di pausa, i Vampire Weekend tornano con “Father of the Bride”. Forse non il loro album più rappresentativo, ma di sicuro il più bello e avventuroso.

Durante i sei anni trascorsi tra il precedente Modern Vampires of the City e questo Father of the Bride, molto è cambiato in casa Vampire Weekend. Rostam Batmanglij ha lasciato la band per concentrarsi sulla sua carriera di produttore, lavorando con Charli XCX, Carly Rae Jepsen, Frank Ocean, Solange Knowles e Haim. Ezra Koening si è trasferito da New York a Los Angeles, collaborando a Lemonade di Beyoncé e scrivendo e producendo Neo Yokio, una serie animata per Netflix. I Vampire Weekend si sono così trasformati in un collettivo composto dal triumvirato originario (Koening, Chris Tomson e Chris Baio), dal produttore Ariel Rechtshaid e (dal vivo) da un quartetto di polistrumentisti (Brian Robert Jones, Greta Morgan, Garrett Ray e Will Canzoneri), andando a comporre una versione della band che ricorda molto da vicino quella dei Talking Heads tra Remain in Light e Speaking in Tongues.

Annunciato via Twitter nel 2016 dallo stesso Koening all’indomani dell’abbandono di Batmanglij con il titolo di lavorazione “Mitsubishi Macchiato”, Father of the Bride abbandona definitivamente le influenze africane e caraibiche rielaborate in chiave Indie Rock dei primi due lavori (Vampire Weekend e Contra), ma, invece di proseguire nella direzione sonora tracciata da Modern Vampires of the City – un album oscuro e stratificato, pesantemente influenzato dall’Elettronica, l’Hip-Hop e il Pop da camera –, abbraccia il sole della California, inglobando elementi Country, Folk, R&B, Soul e Pop, in una miscela sonora esplosiva fatta per la gran parte di pezzi gioiosi e sbarazzini, nei quali i temi della rinascita e della gioia domestica per le piccole cose la fanno da padrone.

Ispirato dichiaratamente al pluripremiato Golden Hour di Kacey Musgraves (dominatore agli ultimi Grammy), Father of the Bride è un caleidoscopio musicale composto da 18 tracce per 58 minuti, dove le canzoni sono spesso piccoli esercizi di storytelling, con personaggi ben definiti nelle loro condizioni emotive e dove i generi sono utilizzati per contrapposizione, andando a comporre una tracklist che superficialmente potrebbe sembrare una playlist randomica, ma che, in realtà, si rivela un vero e proprio percorso sonoro. Parte dal Country di “Hold You Now” per arrivare al Pop pianistico di “Jerusalem, New York, Berlin”, mentre in mezzo, troviamo il tributo a Van Morrison di “This Life”, il Lounge di “My Mistake”, il Jazz in salsa brasiliana di “Flower Moon”, la Psichedelia di “Sunflower” e “Flower Moon” (entrambe realizzate con la collaborazione di Steve Lacy dei The Internet) e il Gospel di “Finger Back”. Ma c’è – soprattutto – una storia d’amore in tre puntate che attraversa tutto l’album, narrata nei duetti con Danielle Haim (“Hold You Now”, “Married in a Gold Rush” e “We Belong Together”), partendo dalla rottura della coppia, passando per la riconciliazione e concludendosi in un finale in stile “…e tutti vissero felici e contenti”.

Prodotto e registrato da Ariel Rechtshaid (con camei di Rostam Batmanglij, David Macklovitch dei Chromeo, DJ Dahi, Buddy Ross e BloodPop) nei sui Effie Street Studios di Silver Lake, Father of the Bride, anche se uscito in pieno 2019, è un album che sprizza anni Settanta da tutti i pori. Con la sua produzione color pastello, allo stesso tempo rustica e precisa, il quarto lavoro dei Vampire Weekend è uno strano incrocio tra There Goes Rhymin’ Simon di Paul Simon e Tusk dei Fleetwod Mac. Del primo riprende la giocosità, l’accostamento tra i generi e il tono positivo e solare delle canzoni, mentre del secondo mutua l’urgenza compositiva, il frenetico succedersi delle tracce e l’incapacità di sintesi, che porta, come nei migliori doppi album, ad accumulare materiale senza buttare nulla, creando un quadro ben più grande della singola cornice.

Partiti come i cugini sfigati e nerd di gruppi ben più cool come The Strokes and Yeah Yeah Yeahs, in un periodo – i primi anni 2000 – dove il l’Indie Rock di stampo chitarristico finiva prepotentemente sulle copertine di tutti i magazine musicali, con gli anni i Vampire Weekend si sono presi una bella rivincita. Molti di quei gruppi sono stati un fuoco di paglia e molti altri fanno fatica a sopravvivere al mito del loro album di debutto. I Vampire Weekend, invece, dopo 13 anni di carriera, con Father of the Bride hanno realizzato senza dubbio il loro album più bello. Magari non il più rappresentativo, ma di sicuro il più maturo e completo.

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TAGS: indie | nuovoalbum | pop | recensione | review | rock | vampireweekend