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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
18/06/2019
Firenze Rocks
Non chiamatelo più festival, per favore
Mediamente, il pubblico del Firenze Rocks è composto da due tipologie: il fan, che aspetta i propri beniamini e a cui del resto non frega una beata fava e quello che io chiamo “il casuale”, che va perché è un evento, perché è una roba grossa, perché può farsi le foto, metterle su Instagram e raccattare like. Oppure fare il figo con gli amici, che penseranno abbia partecipato a chissà quale impresa.

Non so cosa mi abbia ancora una volta trascinato nella bolgia insensata dei “festival” all’italiana, prodotto puramente commerciale per pubblico generalista e pronto a farsi spennare ogni due per tre. Probabilmente è stato che ho trovato dei biglietti pit senza neppure cercarli, visto che a questo giro le prevendite non sono state polverizzate come negli anni precedenti. Dal pit, si sa, la situazione è senza dubbio vivibile, i musicisti sul palco li vedi, tutta la massa te la lasci dietro col loro vociare e i loro telefonini di merda ed è già parecchio, fidatevi.

Sì, dev’essere stato questo: l’idea di vedere concerti di artisti che apprezzo senza uno sbattimento eccessivo. Perché poi, alla fin fine, Eddie Vedder l’ho visto un sacco di volte coi Pearl Jam e un paio di volte da solo (l’ultima proprio a Firenze nel 2017), Glen Hansard, che tanto per cambiare lo accompagnava, lo vedrò a Gardone a fine luglio e i Cure, per quanto li ami alla follia, li avevo beccati a Londra giusto un anno fa, nel memorabile concerto del quarantesimo anniversario. Visto e considerato che le scalette di questo tour nei festival non sono poi così rivoluzionarie, si poteva anche stare a casa.

E invece ci sono cascato ancora. Ovvio, la speranza è che sia l’ultima volta ma siccome poi non mi crede nessuno e iniziano a prendermi per il culo, facciamo che non lo dico.

Il Firenze Rocks, bisogna dirlo, non è poi così male, almeno dal punto di vista logistico. Si parcheggia bene (la domenica), il posto è centrale, collegato benissimo coi mezzi e si cammina poco per arrivarci. Le zone d’ombra ci sono, i posti per mangiare appena fuori anche, la farsa dei token va bene solo per quelli troppo pigri per organizzarsi diversamente perché da fuori ti puoi portare di tutto, mangiare e bere, senza nessun problema. Stessa cosa per i tizi in movimento che ti vendevano birre a 7 euro e acqua a 3 (la birra, se non erro, mi pareva la stessa marca che compravo qualche anno fa al supermercato durante una vacanza in Sicilia. Costo 1 euro a bottiglia. Ma forse mi sbaglio eh!): ho visto una marea di persone chiamarli a gran voce, scucire i soldi sorridendo e poi fare brindisi con gli amici con la faccia soddisfatta. Boh, a me sembra circonvenzione d’incapace, per me si può anche evitare di bere se i prezzi sono questi ma capisco che ognuno abbia le sue priorità.

Quindi logisticamente non è male, dai. Ho decisamente visto di peggio (chi ha detto Radiohead 2017? Chi ha detto Area Expo?). La cosa veramente agghiacciante è però l’idea che ci sta dietro. Già il logo dell’evento, con le cornine e la chitarra avvolta dalle fiamme, è roba che in confronto lo stereotipo è una finezza intellettuale. Scusate, ma c’è ancora qualcuno che pensa che il Rock (o dovrei dire: ruoooooock!!!) nel 2019 sia quella roba lì? Che sia mai stata solo quella roba lì? No, perché poi succede che ci sono quelli che intasano infuriati i Social perché Ed Sheeran (headliner della serata di venerdì) “cosa c’entra col rock?”. Appunto.

Oppure succede che ad un certo punto della giornata ti becchi Ringo (ma questo qui lo pagano pure per fare quello che fa?) fare una ventina di minuti di dj set con una selezione di brani che le compilation su cassetta che registravo a 15 anni in confronto sembravano assemblate da John Peel.

Ma al di là di questo, la cosa più agghiacciante è il cartellone o per lo meno il criterio con cui viene assemblato. Che normalmente è il seguente: “Prendiamo tre o quattro artisti di fortissimo richiamo, nomi che da soli garantiscono quelle decine di migliaia di persone necessaria per coprire le spese e guadagnarci quel tanto. Dopodiché, ne chiamiamo altri quattro o cinque a giornata, in base a chi c’è in giro, in base ai costi, ma assolutamente senza fare qualcosa di omogeneo o coerente a livello di proposta. Tanto a noi che ce frega? Vengono tutti per l’headliner, gli altri non se li caga nessuno…”. Sarà esagerato ma la verità è che quelli che in Italia da anni ci ostiniamo a chiamare “festival” sono esattamente questa roba qui: un palco solo, band che si succedono una dopo l’altra, se vuoi le vedi, se non vuoi vai al bar oppure spacchi il cazzo a quei due o tre che invece vogliono seguire (indovinate chi avevo di fianco domenica pomeriggio durante il set dei Balthazar?), nessuna possibilità di scegliere, di costruirsi la propria giornata.

E così ecco l’aberrazione per cui il giorno di Eddie Vedder dobbiamo sorbirci anche gli Strouts o i Nothing But Thieves, che non solo sono insignificanti (ma questo è ovviamente un parere mio) ma risultano totalmente fuori contesto. Oppure, il giorno successivo, va bene per Siberia, Balthazar ed Editors, che più o meno sono in linea con i Cure; ma poi ecco i Sum 41, col loro Heavy Punk ridicolo e frotte di ragazzini urlanti (giuro, questa roba la ascoltavano i miei studenti 15 anni fa. Possibile che anche nel 2019 i giovani vadano pazzi per loro? Non lamentiamoci più della mancanza del ricambio generazionale!). Che se poi volete la mia, dal vivo sono pure bravi ed hanno messo in piedi uno show piacevole (per venti minuti, ok) ma davvero, ancora una volta, perché?

I casi sono due: o chi organizza non capisce niente di musica, oppure pensa che ad essere ignoranti siano i propri clienti. Qualunque sia la soluzione, questi sono eventi per fan, non per appassionati. L’appassionato può anche esserci, non lo mandano mica via, durante il set dei Siberia ho pure beccato qualcuno che, come me, cantava i pezzi ma sono bestie rare.

Mediamente, il pubblico del Firenze Rocks è composto da due tipologie: il fan, che aspetta i propri beniamini e a cui del resto non frega una beata fava e quello che io chiamo “il casuale”, che va perché è un evento, perché è una roba grossa, perché può farsi le foto, metterle su Instagram e raccattare like. Oppure fare il figo con gli amici, che penseranno abbia partecipato a chissà quale impresa. Credo che, perdonatemi la digressione, nei piccoli paesi sia ancora adesso così: nel lontanissimo 1993, quando andai a Modena per i Guns ‘N Roses, il giorno dopo c’erano le vecchie che mi fermavano per strada chiedendomi: “Allora, il concerto com’è stato?” (Giuro che è tutto vero).

Il risultato è uno solo: volete vedervi un gruppo che suona alle 17 sotto il sole? Provateci ma non garantisco che vi andrà bene. Se riuscite a schivare le centinaia di fisici palestrati con tatuaggi al vento, donne in reggiseno che esibizionismo mollami, gente che urla nei telefoni chiamando gli amici, gente che urla invitando gli amici a venire lì (poi chissà perché, quando arrivano, sono sempre dalle 5 alle 10 persone e urlano tutte come matte), gente che ti sbatte il telefono in faccia per registrare quindici secondi di video, gente che conversa amabilmente dei cazzi propri (almeno qui, contrariamente al Primavera, il volume è bello alto); ecco, se riuscite a schivare tutto questo, magari vi godrete il concerto. E attenzione che sto descrivendo la situazione del pit, quella dove dovrebbero esserci i fan più affezionati e motivati. Non oso pensare a cosa si sarebbe potuto vedere nelle retrovie.

La giungla, ragazzi, è una cazzo di giungla. E potrete pure dirmi che è sempre stato così ma io dubito. Qualcuno giustamente faceva notare che i Cure, in Italia, 50mila persone non le hanno mai fatte neppure negli anni d’oro. Quindi? Dov’è il punto? Sono più famosi loro oggi, oppure c’è un botto di gente che li va a vedere perché “grandi, li passano sempre su Virgin Radio!” (Virgin Radio, tra parentesi, è una delle ragioni per cui, musicalmente parlando, noi italiani rimarremo sempre dei trogloditi). E di Eddie Vedder ne vogliamo parlare? Quanti lo conoscono solo per “Black” (sono arrivato ad odiarla, pensate un po’ voi) e per “Into the Wild”? Cosa ha fatto di artisticamente valido, da solo o con la band, per giustificare questa pazzesca sovraesposizione mediatica degli ultimi cinque-sei anni? Dove sono finiti i tempi in cui i Pearl Jam non facevano sold out neppure nei palazzetti?

C’è il marketing dietro a questi eventi: 70% marketing e conseguente voglia di apparire, 30% reale interesse e passione dei fan. Che non vuol dire che allora non bisogna più andarci. Semplicemente, siamo consapevoli della realtà, tutto qui.

E va bene, direte voi, ma i concerti come sono stati?

Proviamo a sbrigarcela in poche righe che ho già sproloquiato fin troppo: Eddie secondo me è stato un po’ sotto le aspettative. Non fraintendetemi, è stato un bel concerto, da 7,5-8. Il problema è che, dal mio personalissimo punto di vista, ormai sembra un po’ troppo calato nel personaggio. Sta diventando una sorta di santone tipo Bono. La massa glorifica il suo essere alla mano, la sua vicinanza coi fan, il suo amore per l’Italia (in Italia), la sua voce (ah, che voce!), le sue doti interpretative (oh ma su “Betterman” l’hai sentito? Brividi!) e lui si presta, un po’ furbescamente, a questo gioco, facendo il minimo indispensabile. Per carità, è veramente un performer eccezionale e, quando canta da solo, la sua voce ancora regge ancora l’urto del tempo. Quindi dovrebbe limitarsi a salire sul palco, prendere le sue chitarre e cantare. Cantare quel cazzo che vuole. Cover, pezzi suoi, pezzi dei Pearl Jam; rarità dei Pearl Jam, se ne avesse voglia. Invece ormai i suoi concerti, da qualche anno a questa parte, sembrano essere per buona parte frutto del desiderio di gratificare il pubblico: classici a raffica dai primi tre dischi, grandi singalong, le cover delle canzoni famose, un uso sempre più frequente della chitarra elettrica e delle tonalità alte, quasi urlate, come se avesse la band dietro di sé, soluzioni caciarone e rumoristiche pienamente adatte agli spazi aperti in cui ormai si esibisce ma discutibili dal punto di vista artistico (“Should I Stay or Should I Go” mettendo il distorsore all’ukulele è stata divertente ma la prossima volta anche no, grazie). Poi succede che, così senza pensarci, infila una “Parting Ways” da urlo e capisci che se tre quarti del concerto fossero così sarebbe tutta un’altra roba. Solo che poi vedi che non la canta nessuno, che la maggior parte si fa i cazzi propri perché non ha capito che roba è e allora ti ricordi di dove sei finito e ti arrendi mestamente.

Non lo so, magari sono io che sono troppo critico ma quando lo vidi a Montreal nel 2008 (in Italia non veniva, sapete? Chiedetevi un po’ perché) ricordo uno spettacolo quasi del tutto diverso. A questo giro è riuscito ad essere ancora più sbracato e telefonato di due anni prima, che pure era stato un bellissimo concerto.

Nulla di grave, ci mancherebbe, solo fa un po’ male vedere un artista del suo calibro ridotto ad aver chiuso più o meno definitivamente il discorso della propria identità e del proprio ruolo nel mondo musicale. Sarò eccessivamente romantico, ma mi piacerebbe che non si smettesse mai di mettersi in discussione, ecco.

La giornata successiva è partita senza dubbio meglio. A parte l’aggiunta dell’ultima ora, non annunciata, dei toscani Bang Cook (che meriti avessero per essere lì e soprattutto perché li hanno messi in cartellone così all’improvviso è un mistero), decisamente superflui, il pomeriggio è poi proseguito con l’ottimo show dei Siberia, tra le migliori giovani realtà della Penisola (ne avevo parlato qui lo scorso anno) che non si sono fatti intimidire dalla vastità del palco e hanno proposto le loro canzoni (e una cover di “Disorder” perfetta per il quarantennale di “Unknown Pleasures”) con grande sicurezza.

Poi i belgi Balthazar, che dal vivo, non credevo, sono bravissimi e fanno una mezz’ora da paura, confermando che le lodi che avevamo tributato loro per l’ultimo “Fever” non erano ingiustificate. Ripasseranno ad agosto al TOdays di Torino (ecco, quello possiamo definirlo un festival) e non me li voglio assolutamente perdere.

Sempre il solito per gli Editors, che ormai in Italia suonano più spesso dei gruppi italiani. Assurdo che vengano loro riservati solo 40 minuti, per poi darne 75 ai Sum 41, allungando il tutto con dei tempi morti eccessivamente pesanti (e con l’imprescindibile dj set di Ringo, ovviamente). Ciononostante, fanno il loro lavoro, impeccabili come al solito, con un Tom Smith sempre più frontman di razza, voce fantastica e un repertorio che, nonostante le brutture tratte dagli ultimi dischi, risulta convincente (per quanto mi riguarda, se hai in scaletta “Papillon” e “The Racing Rats” la partita è chiusa). Finale con la nuovissima “Frankenstein”, che dal vivo non è così malvagia come mi era sembrato.

Dei Sum ho già detto e non ci torno sopra. I Cure invece sono stati magnifici. C’era molto che avrebbe potuto far temere un concerto di routine, dalla cornice sempre molto dispersiva e celebrativa dei festival, ad una scaletta ancora una volta incentrata sui brani più famosi, all’assenza cronica di un qualunque nuovo disco da promuovere (va a finire che usciranno prima i Tool di loro). Insomma, un gruppo giunto al viale del tramonto, che sfrutta solamente l’effetto nostalgia.

Niente di tutto questo. Se il copione poteva anche essere lo stesso, i cinque lo hanno recitato splendidamente. Un Robert Smith decisamente in palla, allegro, a tratti anche spiritoso, rilassato e contentissimo di stare lì e soprattutto in una forma vocale pazzesca, al di là di ogni aspettativa. L’anno scorso a Londra era andato alla grande; qui si è addirittura superato, la resa di canzoni non certo facilissime come “From the Edge of the Deep Green Sea” o “Doing the Unstuck” è stata incredibile.

Dal canto loro, gli altri sono dei musicisti formidabili, questa è forse una delle formazioni migliori dell’ensemble britannico, almeno dal punto di vista tecnico. Reeves Gabrels con la sua chitarra ha fatto di tutto, sembrava indemoniato; Simon Gallup, lasciamo perdere l’atteggiamento istrionico, era un motore inarrestabile, sentivi perfettamente il suo basso martellare incessante sotto ogni canzone. Stessa cosa per Jason Cooper dietro le pelli, monumentale; e ancora, Roger O’ Donnell alle tastiere, statuario, impassibile ma quando conta sai sempre dove trovarlo.

Sarà retorica ma mi sento di scriverlo perché così l’ho percepita: sembravano cinque ragazzini. Due ore e mezza tiratissime, con momenti di altissima levatura, come quello dedicato ai primi dischi, con un’accoppiata “Play for Today/A Forest” decisamente impressionante, o una “One Hundred Years” talmente intensa e magmatica che ci si sarebbe potuti aspettare che si aprisse la terra. O ancora, in episodi meno immediati e iconici come “Want” e “39”, due esecuzioni tirate e di grandissimo fascino.

Certo non sono mancati i classici, che di fatto hanno occupato più della metà del set, e nonostante il delirio dei telefonini (ragazzi, sul serio, datevi una calmata) le solite canzoni funzionano sempre benissimo, è innegabile.

Se poi consideriamo che è arrivata pure qualche chicca, come la rarissimamente suonata “Wendy Time” (fonti autorevoli dicono non fosse in scaletta dal 1992, praticamente dal tour di “Wish”) e le suggestive “Just One Kiss” e “Last Dance”, anch’esse non suonate spessissimo, capirete che non c’è stato proprio nulla di che lamentarsi.

Quindi, potremmo concludere: la cornice farà schifo ma almeno le band che suonano garantiscono grande spettacolo. Vero, ci mancherebbe. Ma se proprio dovete scegliere, scegliete i club, al massimo i palazzetti. Chi ama davvero tanto la musica non può stare in posti del genere. A meno che non si inizi a pensarli in maniera un po’ più coerente.

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