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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
11/07/2019
Ricordi di un'estate
Paolo Rossi Era Un Ragazzo Come Noi
Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Una formazione di calcio? No, amici, questa è una filastrocca rock'n'roll, un'indimenticabile Glory Days bearzottiana, musica pedatoria per l'impresa calcistica più bella di tutti i tempi.

Riff potenti, ritmica tribale e epica per invincibili. Spagna 1982: Campioni del Mondo contro ogni pronostico, Campioni contro tutto e contro tutti, Campioni quando il calcio si declamava in versi, poesia della fatica e luce accecante del genio. C'erano i due punti, i numeri dieci che illuminavano anche se si giocava al buio, le ammonizioni solo se fratturavi una tibia e gli avversari erano leggende in pantaloncini: la Germania Ovest di Rummenigge e Kaltz, il Brasile di Zico e Falcao, l'Argentina di Maradona, la Francia di Platini, la Polonia di Boniek. Non il calcio livellato e muscolare di oggi, tutto tattica e tavolino, popolato da artisti circensi specializzati in tuffi plateali al primo refolo di vento, ma uno sport per uomini veri, o così almeno sembrava ai miei occhi di ragazzino.

Tra tanti squadroni imbattibili, c'eravamo anche noi, l'Italia, un grande punto di domanda senza risposta a chiosare un recente racconto di calcio scommesse ed esclusioni eccellenti (Pruzzo e Beccalossi). Più o meno la stessa squadra del ''78, blocco Juve, e quel Paolo Rossi a cui Bearzot non volle rinunciare, nonostante fosse reduce da due anni di squalifica per aver scommesso su più di una partita di campionato combinata ad arte.

Cosa andiamo a fare in Spagna, ci chiedevamo tutti, cosa? Si, la Spagna è bella da vedere, ma contro certi avversari, non c’è trippa per gatti. Qui, ci asfaltano tutti, pochi cazzi.

Parte il primo girone, e le paure e le incertezze diventano realtà. Sfidiamo Polonia, Perù e Camerun, e cioè una formazione forte e due compagini molto folkloristiche e non certo irresistibili. Risultato? Tre pareggi per il rotto della cuffia e un gioco di merda che più di merda non si può. Ci salvano una rete di Bruno Conti (che De Gregori renderà immortale in La Leva Calcistica del 1968, canzone di Titanic, uscito poco prima del Mondiale) e una di Ciccio Graziani, bomber noto ai più per il mitico stop a seguire, contraddizione in termini dell'abbecedario calcistico. Andiamo avanti a fatica, tra i lazzi della stampa specializzata, le pernacchie degli avversari e quel Paolo Rossi che non vede la porta nemmeno a farlo giocare con il binocolo al collo.

Quel che accadrà dopo, però, ha dell'incredibile, è fantascienza, è il romanzo folle e stralunato di un romanziere visionario, una scheggia impazzita di imprevedibilità pedatoria nel corso già scritto di una storia sportiva, il cui finale avrebbe dovuto essere noto e cristallino. La vita, si sa, però, non è un lungo fiume tranquillo, ma scorre tortuosa e schiumante come un ruscello di montagna che l'alveo trattiene a stento.

Ci becchiamo Brasile e Argentina, mini girone all'italiana, passa la prima. E quando esce il sorteggio, è un po’ come se a tutta la nazione avessero infilato un cactus nelle mutande: comunque tu ti muova, fai danni. C'è chi parte per il mare e chi rimette nel cassetto il tricolore. È finita, dai, pensiamo alle ferie.

Invece al Sarrià di Barcellona si compie il primo miracolo, altro che moltiplicazione dei pani e dei pesci. Giochiamo contro l'Argentina e nella metà campo avversaria ci sono i campioni in carica, gente leggendaria che porta il nome di Passarella (dai Daniel Daniel Daniel, tira la bomba, tira la bomba!), Ardiles, Bertoni e un extraterrestre chiamato Diego Armando Maradona.

Fronti imperlate di sudore, respiri affannati, gambe che tremano, e una domanda ricorrente: ma quando mai vinciamo contro questi?

Ci pensa Claudio Gentile, italiano delle colonie, sguardo ruvido da camionista e piede roccioso come il porfido. El Pibe De Oro non vede biglia: Gentile gli si aggrappa alla maglietta, gliela strappa, lavora di anca e di gomiti, gli resta appiccicato anche nell'intervallo, tra bicchieri di integratore salino e una fugace pisciata. Se quello prova a partire in dribbling volano calcioni sulle caviglie che rimbombano nel tubo catodico. Si gioca anche così in quegli anni: il genio fa il genio e l'operaio ci mette cuore e cattiveria. 

Segnano Tardelli e Cabrini, rintuzza Passarella nel finale, ma è vinta. L'Italia torna a respirare, tutti insieme, all'unisono, riempiamo le piazze della nostra gioia troppo trattenuta.

Si pensa al Brasile e ci crediamo un po’ di più: è dura, durissima, ma possiamo farcela. Al Sarrià affrontiamo i verdeoro che hanno appena battuto l'Argentina e che sono una compagine di fenomeni, gente che nel Barcellona di oggi manderebbe Messi in panchina o a lucidare le scarpette: Zico, Junior, Socrates, Falcao, Eder. Hanno una pippa in porta (Valdir Peres) e un gatto di marmo davanti (Serghino), ma gli altri nove stanno al calcio come Giotto alla pittura. Chi non ha visto la partita non potrà mai capire cosa significhi palpitare veramente. Non un match ma un thriller alla Hitchcock, cuore in gola e chiappe strettissime. Loro giocano bene, e ci mancherebbe, ma noi ancora meglio: Pablito redivivo si scatena e ne fa tre, Zoff vola ovunque, Antognoni sembra più brasiliano dei brasiliani, Conti non lo fermi nemmeno se gli spari. Si combatte colpo su colpo: Rossi, Socrates, Rossi, Falcao, Rossi, 1 a 0, 1 a 1, 2 a 1, 2 a 2, 3 a 2. Partono parecchie coronarie e a fine partita sono pochi coloro che possono dire di avere le mutande intonse.

Andiamo a festeggiare in strada, di nuovo tutti insieme, perché è semifinale e ci tocca la Polonia di Boniek, che ha eliminato Urrs e Belgio.

Ma ormai siamo rilassati, in fondo al cuore lo sappiamo che si va a Madrid, che la finale è nostra. E infatti, in una partita che sembra non avere pathos, Paolo Rossi, che ormai segna di coscia, di culo, di anca, di stinco, di petto e anche di ascella, ne fa due e ci prende per mano fino al Bernabeu.

È la sera della finale e ce la giochiamo con l'immortale Germania, una squadra che non molla mai un centimetro di campo, una palla, un minuto di gioco. Non è il Brasile, ma comunque è fortissima. Da loro, in attacco, c'è Karl Heinz Rummenigge, il giocatore che ho più amato nella mia vita. Non è ancora arrivato all'Inter (ci arriverà due anni più tardi) e quindi è un "nemico " come tutti gli altri. L'Italia però si veste un po’ più di nerazzurro, questa volta: Lele Oriali, zio Beppe Bergomi, diciotto anni e due mustacchi da sergente d'artiglieria, Spillo Altobelli, l'analfabeta del goal, che segnerà la terza rete, quella dell'apoteosi.

Quell' 11luglio 1982 ero in vacanza a Villasimius, in Sardegna. Nonostante fossi piccolino, ricordo benissimo ogni secondo della partita, la gioia, i palpiti, il tricolore stretto stretto al petto. Sarà l'emozione sportiva più intensa della mia vita, superiore anche alla Champions vinta dall'Inter dopo 45 anni e a Baldini che domina la maratona ad Atene nel 2004, entrando da solo nello stadio Olimpico. La voce del grande Nando Martellini, l'arbitro Coehlo (cazzo, questo è brasiliano e ci inculerà, pensavo) il rigore sbagliato da Cabrini a fine primo tempo (e il bestemmione che tirai, facendo impallidire mia madre), Rossi che la butta dentro, per la sesta volta, al 56° della ripresa, l'urlo liberatorio di Tardelli e di sessanta milioni di italiani, Sandro Pertini che esulta in tribuna, Dino Zoff che alza la coppa, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Campioni Del Mondo!, il golfo di Cagliari illuminato a giorno dai fuochi d'artificio, io che abbraccio tutti e mi tuffo in mare vestito, cinque chilometri a piedi all'alba per comprare la Gazzetta dello Sport, senza trovarla.

Accecanti bagliori di un ricordo che oggi, a trentasette di distanza, mi riempie il cuore di quella ingenua e fanciullesca felicità, che solo il calcio, e lo sport in genere, riescono a donarmi. Come a Madrid, l'11 luglio del 1982, ancora campione.


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