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REVIEWSLE RECENSIONI
26/07/2019
Night Moves
Can You Really Find Me
Alla fine tiro le somme: non ho citato una frase, poche parole rimaste in testa, solo delle domande che molto spesso emergono dai testi, ma che non trovano eco e risposte in chi le riceve. Non ancorano. Ecco quindi cosa manca; la partecipazione di chi ascolta.

Fuori il 28 giugno 2019, a tre anni dal precedente Pennied Days questo nuovo lavoro del duo di Minneapolis Night Moves formato dal cantante-chitarrista John Pelant e dal bassista Mick Alfano.
Can you really find me è il titolo, esce su Domino, prodotto dal Jim Eno degli Spoon, rispetta il rock pop sintetico che i due avevano già portato in dote col proprio debutto, riuscendo forse a staccarsi da quei momenti di placido intimismo psichedelico che tanto li avevano contraddistinti, senza però riuscire a lasciare il segno con qualcosa di ugualmente memorabile.

Parte Mexico ed il suono è felpato. Non c’è niente di tagliente nel blocco strumentale, tutto molto potato in alto ed in basso, togliendo quindi l’incombenza alle frequenze più estreme, se si esclude qualche bassa panciuta ed inaspettata, di spettinarti e coinvolgerti, lasciando quindi l’arduo compito a tutto il resto; la scrittura, chiaramente, gli arrangiamenti e soprattutto la bella voce di Pelant.

Non provo niente di così sconvolgente a parte una costante piacevolezza e pacatezza, tipica dei territori già esplorati che si ripropongono in una salsa appena diversa. Quindi tutto è placido e il duo, coadiuvato dalla stessa band che li accompagna dal vivo ovvero Chuck Murlowski e Mark Hanson, portano a spasso il pezzo con maestria riuscendo a far elevare la voce acida e caratteristica di Pelant laddove serva, quindi svuotandosi per consentire anche ai falsetti che lo contraddistinguono di tenere le redini del brano.
Synthetic pop, direi, con nessuna particolare sorpresa di scrittura.
Certo, i richiami come dicevo sono piacevoli e tranquillizzanti, almeno per il sottoscritto, anche nella seguente Recollections, sicuramente più vivace. Quindi non posso che sorridere associando il timbro tagliente della voce di Pelant a quella di Gaz Coombes dei Supergrass, che a sua volta ti ricordava Mick Jagger, giusto per alzare a dismisura l’asticella dei ricordi. In un altro senso penso a Terj Nordgarden ed alla sua voce precisa, a tratti fragile ma resa solida da quelle frequenze perfette ed emozionanti. Per non parlare del richiamo più estremo di tutti, il compianto Layne Staley degli Alice in Chains.
Musicalmente la testa mi va nelle produzioni dei primi duemila, ed in questo il bagaglio del produttore Jim Eno gioca il suo ruolo. Nello specifico punto agli Air, non quelli lounge e sabbiosi di Moon Safari, ma quelli di Pocket Symphony che sbagliando giudicai appena più deludenti di ciò che c’era nel mezzo, il capolavoro Talkie Walkie. Il sound mi pare preso dalla solita piccola e affascinante conchiglia.
Tutto ciò non per farne una rosa di paragoni, ma per giustificare un mio immotivato benessere all’ascolto.
Perché le prime due canzoni, ad essere spietato, non mi attraggono con niente di loro. Sempre e soltanto per un odore già sentito.

Per fortuna ci pensa Keep me in mind a darmi uno schiaffetto ed a farmi capire che non avevo proprio esagerato a pensare agli Alice in Chains. Su questa chitarra acustica che guida il pezzo manca soltanto un effetto chorus per riportarti su Jar of Flies; poi ci sono i tipici e tigrati controcanti armonizzati verso il basso dallo stesso cantante principale che creano quell’insieme vocale forse meno ricco di quando hai voci diverse che si sposino bene, ma l’effetto è bellissimo e per la prima volta tutto da godere.
La canzone chitarra e voce mi ha dato un colpetto al cuore,  anche se è successo più per la maestria dei mezzi usati che per l’unicità della formula che sta alla base della canzone. Insomma non c’è stato niente di emozionante ed incontrollabile, neanche nella scrittura, almeno a mio avviso, ed io sono qui che lo aspetto.
Strands align parte, con l’attesa addosso del singolo appena uscito e col richiamo fortemente eighties che passa dal suono di una tipica tastiera dx7, per arrivare da solo a portarti di fronte a Stranger things.
Diceva per l’appunto John Pelant in un’intervista di essere stato guidato da delle immagini chiarissime e forti che hanno fatto fluire parole e musica in un unico e semplice getto, che hanno dovuto essere recettivi nel suonarlo. Questo si sente, il disco è coeso e piacevole senza alcun dubbio.

Waiting for the symphony ci distrae ed alleggerisce ancora di più con dei richiami fiabeschi che stanno tra il prog e la psichedelia e qualcosa di più inaspettatamente pop, come potrebbero essere dei momenti dei Bee Gees di Saturday Night Fever, con una sorta di finta brillantezza color arcobaleno.

Arriva Ribboned Sky che sembra missata su Marte e stavolta non ho fretta di seguirne l’evoluzione, ma ascolto sperando che questo sentiero sonoro tastieristico e sintetico mi accompagni chissà dove.
E finalmente succede, è tutto bello ed equilibrato tra bei vestiti e codici genetici di questo momento. Persino i richiami si allargano a dismisura facendosi meno pressanti e di conseguenza meno importanti da dover essere citati. C’è altro di cui parlare, di cui beneficiare; c’è un insieme che funziona, un brividino che ti sta accanto sempre sul punto di entrare in gioco come un angioletto custode ed alla fine non fai altro che aspettare, là a tre cm da terra, di essere portato un po’ più in su, oppure accetti di rimanere lì ancora per un po’ per poi godersi la meritata discesa alla normalità, come nella più consumata delle evoluzioni di vita. Ed è quello che mi succede.

Coconut grove passa semplice e pare destinata alla funzione di riempitivo adagiandosi sullo standard sonoro e melodico del resto dell’album, pur avendo una profondità tutta sua che accredito alla batteria ed al suo sound meno schiacciato e più dinamico di quanto mi sia abituato.

Arriva Saving the dark e il territorio di ispirazione degli anni settanta si fa molto più presente, specialmente nelle soluzioni armoniche e nella costruzione del brano. Breve, 2 minuti e 57 secondi, che trascorrono veloci senza grossi scossoni eccetto un piccolo bel momento strumentale che accompagna la coda in maniera insolita e così penso, da buon bastian contrario, che forse proprio la costruzione un po’ troppo simile delle canzoni e degli arrangiamenti non aiuti il disco a decollare, ma anzi lo renda monotono. Ed i pochi momenti di sfogo strumentale diano respiro in maniera importante, come è successo qua e come era accaduto in Ribboned Sky.

La Beck-iana Angelina è una ballad che sembra presa da Morning Phase, di quelle dove non senti il charleston della batteria (come Ringo comanda), nonostante l’ispirazione altissima, questo episodio non fa che abbassare drasticamente il valore delle carte in gioco anche perché c’è davvero poco di originale nell’impacchettamento tanto quanto nel contenuto del pacco. Un’ispirazione sfuggita di mano, per chi come me conosce Country down di Beck.

Chiude il disco la title track Can you really find me, una discreta ballad alla Neil Young di Harvest e lo fa in maniera piacevole, mettendo un punto sul legame con la tradizione cantautorale folk e country di tutto l’album.

Alla fine tiro le somme: non ho citato una frase, poche parole rimaste in testa, solo delle domande che molto spesso emergono dai testi, ma che non trovano eco e risposte in chi le riceve. Non ancorano. Ecco quindi cosa manca; la partecipazione di chi ascolta.
Certo, l’ascoltatore sono stato io e potrebbe essere una cosa soggettiva, ma su questo torno dopo.
C’è una voce magnifica, perfettamente inserita in un richiamo alla tradizione americana. Tanti altri ingredienti ben associati, ma davvero poco utili se si esclude un unico momento sopra le righe di pieno coinvolgimento che è stato Ribboned Sky, una canzone in cui forse sono state mischiate più le carte e sono aumentati i valori in campo pur giocando con i soliti uomini, come se avessero trovato una formula vincente e fossero stati toccati da una mano divina; il beneficio del momento è stato evidente.
Una continua e costante piacevolezza di sottofondo per il resto che accompagna l’ascolto ad un’inconcepibile e fastidiosa distanza di sicurezza, come se ti volesse con sé per mostrarsi bella nei contorni ma nascondersi nei contenuti.
Ed ecco che solo alla fine capisco un piccolo paradosso che sbroglia un nodo importante, lasciato in sospeso qualche rigo sopra; se non ci fosse stato quell’unico picco alto, avrei giocato ad aspettarlo nel tempo e cercarci del buono, magari nei futuri ascolti come capita a molti dischi. Il punto è che il buono ce l’ho già trovato in un episodio e anche molto nel profondo; ecco quindi che ho capito quali siano i tasti a loro disposizione in grado di emozionarmi e 6 minuti soli in un album sono sicuramente qualcosa di buono e da portarsi dietro, ma anche una piccola e sincera delusione.
Li aspetto volentieri al prossimo varco.


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