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REVIEWSLE RECENSIONI
27/08/2017
Institute
Subordination
Gli Institute si confermano degni eredi della tradizione Punk/Rock texana allestendo un’agile scaletta (9 brani per 26 minuti di durata totale) di rara potenza e violenza esecutiva.
di Giorgio Cocco

Con la complicità della Sacred Bones e del produttore Ben Greenberg tornano alla ribalta gli Institute (da non confondere con l’omonimo gruppo di Gavin Rossdale), band di Austin tra le più interessanti dell’odierna scena Hardcore/Punk americana. Subordination segna il secondo capitolo della loro discografia inaugurata da Salt, l’Ep che anticipò di qualche mese lo splendido esordio del 2015, Catharsis. Guidati dal cantante/chitarrista Moses Brown con Arak Avakian alla seconda chitarra, Adam Cahoon al basso e Barry Elkanick alle percussioni (tutti con passate esperienze in piccole band locali), gli Institute si confermano degni eredi della tradizione Punk/Rock texana allestendo un’agile scaletta (9 brani per 26 minuti di durata totale) di rara potenza e violenza esecutiva. Rispetto a Catharsis, Subordination si muove su un terreno più vasto, con diversi arricchimenti stilistici che vanno dal Glam all’Hard senza per questo pregiudicare l’attitudine essenzialmente Anarcho/Punk dei primi lavori che qui si concretizza soprattutto nei testi: “Questa è la giusta colonna sonora per i tempi in cui viviamo”. In una recente intervista Brown ha inoltre osservato: “Il governo, la polizia, il machismo imperante, hanno costruito un sistema che consente il controllo sulle persone oramai addomesticate e incapaci di ribellarsi”.

Tornando al sound di Subordination, i brani si succedono alla velocità della luce caratterizzati dalla voce scartavetrata e carismatica di Brown contornata dalle due affilatissime chitarre e da una sezione ritmica precisa ed inesorabile che impone i tempi. L’affiatamento e la tecnica strumentale non difettano come dimostrano subito in apertura con un trittico pazzesco - Exhibitionism, Only Child, Prissy Things - che colpisce ed impressiona per il wattaggio sprigionato e la perizia che la band profonde su corde e pelli, tra dissertazioni Post Rock e dissonanze Noise. I quattro aggrediscono l’uditorio quasi fossimo in pieni anni ’80: continuo il ricorso a forme di Rock selvaggio e primitivo che anche in Texas vide la luce con l’affermarsi di band come Dicks e Butthole Surfers. Eccellente il resto del programma in cui spiccano pezzi di grande impatto come l’acida e penetrante All This Pride (con un numero da paura del batterista Barry Elkanick), la marziale e stortissima Oil Money, Too Dumb, P’n’R diretto allo stomaco come un pugno ben assestato, e l’arrembante progressione ritmica di Powerstation che chiude la scaletta. Non perdetevi dunque gli Institute, soprattutto questo magnifico album, chiamata alle armi per chi ha ancora voglia di ribellarsi allo status quo e tassello fondamentale per comprendere l’evoluzione dell’Hardcore/Punk nell’ultimo lustro.