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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
28/08/2017
Japan
Miniature mitteleuropee nel giardino zen
Troppo frettolosamente archiviati da critica e pubblico dopo lo scioglimento, i Japan rimangono uno degli ensemble più originali e influenti del pop britannico: la loro ricerca sonora è un ponte cesellato di gemme rare e pregiate che collega la cultura mitteleuropea ai giardini zen del Sol Levante, senza tutta la fuffa “new age” da bancarella alla Fiera del Benessere.

L’ipotesi che Quiet Life (1980) sia uno dei dischi che più abbiano contribuito a forgiare il suono degli eighties è assai plausibile. Sì, lo so, ci sono altri nomi – Roxy Music e Bowie su tutti -  che vengono prima, eppure ogni volta che ascolto il terzo album dei Japan, il pensiero che in questi otto brani sia racchiuso il succo estetico e sonoro di quel decennio mi solletica senza posa. E questo merito, posto che di merito si possa parlare, ai cinque ragazzi Catford non è mai stato riconosciuto appieno.

Il fatto è che, a differenza dei due “mostri sacri” citati poc’anzi, i Japan non sono mai stati in grado di scrollarsi di dosso quella patina di elegantissima ma vuota effimerità che indusse i critici dell’epoca ad ascriverne il nome tra i protagonisti del nascente movimento New Romantic; attribuzione tanto errata quanto fatale per la band, che, pur respingendola nelle parole e nei fatti, non riuscirà più a venir fuori dalle vellutate pastoie di quell’etichetta impropriamente affibbiatale, se non (ironia della sorte) poco prima dello scioglimento.

A dire il vero, ci avevano messo del loro, e non poco, ostentando fin dagli esordi pose glam e raffinato estetismo, relegando dunque alla mera ragione sociale l’esotismo e la fascinazione per l’Oriente, che diverranno in seguito caratteristiche precipue anche nella sostanza.

Adolescent Sex, opera prima datata 1978, parla un linguaggio ingenuamente ibrido costruito su una sintassi disco-funk colorata di hard-rock ed elettronica q.b.: i neonati – discograficamente parlando, perché la band è attiva dal ’74 – Japan si adagiano sul “white soul” saccheggiando umori e armadi del Bryan Ferry solista e del Bowie di Young Americans. In patria l’album non se lo fila nessuno (manca persino l’ingresso nella Top 100), ma curiosamente Sylvian e soci scoprono di avere un discreto seguito in Giappone. Poco da segnalare nei dettagli, comunque: i brani sono nel complesso gradevoli ma innocui, e se proprio si deve menzionare almeno un titolo la scelta cade, più per ragioni presaghe di future evoluzioni che per il suo valore intrinseco, su “Communist China”.

Un paio d’anni dopo, intervistato da Melody Maker, lo stesso David Sylvian dirà: “Credo che non avremmo dovuto pubblicare quel primo album. Davvero, non mi piace. Era immaturo.”

Lo sono anche i tre singoli estratti: “Don’t Rain On My Parade”, eccentrica cover tratta dal musical Funny Girl, una versione registrata ex novo di “Adolescent Sex” e “The Unconventional”, una robetta danzereccia che nelle mani di Nile Rodgers si sarebbe sicuramente trasformata in un tormentone da dancefloor. In aprile, la band si imbarca per un tour europeo di supporto ai Blue Öyster Cult e non credo ci sia bisogno di spiegare che tipo di accoglienza riservò loro il pubblico rockettaro.

L’ansia “sylviana” sul controllo artistico regala le prime allarmanti avvisaglie quando si tratta di entrare in studio per dare un seguito al fallimentare album d’esordio. La Hansa-Ariola, l’etichetta tedesca che li aveva messi sotto contratto nel 1977, chiede un disco più “rock” che possa soddisfare anche i palati statunitensi, non avvezzi alle comunque già raffinate partiture di Adolescent Sex.

Tra aspri litigi con il produttore Roy Singer e accese discussioni interne sulla direzione da intraprendere, i Japan sfornano Obscure Alternatives (1978), opera fondamentale della loro breve storia, studiata puntigliosamente fin nei minimi particolari (la track listing muterà più d’una volta prima di assumere la configurazione definitiva). Idealmente lo si potrebbe suddividere in due parti: il primo lato con brani, ehm, “vecchio stile” e già ampiamente rodati dal vivo, il secondo con materiale nuovissimo, assai più equilibrato nella composizione e nella resa sonora. Stupisce ancora oggi la title-track e stupira ancor più ascoltarla trasformarsi, negli anni a venire, durante i tour, testimone dell’universo in costante cambiamento dei Japan.

Il pop, qui e là, fa ancora capolino (“Sometimes I Feel So Low”, uscita anche su singolo, o “Automatic Gun” che apre il disco) e la band, liberatasi quasi del tutto dai capricci disco dell’esordio, sfoggia una maturità impensabile a così pochi mesi di distanza, mostrando di avere le idee già abbastanza chiare sul futuro. “The Tenant”, non a caso posta in chiusura, è lo splendido seme (di loto) gettato sul sentiero dei “nuovi” Japan, che qui sembrano trovare una loro collocazione spazio-temporale all’interno dell’allora imperante sensibilità post-punk.

Sotto il profilo commerciale, Obscure Alternatives segna un altro passo falso: tuttavia la versione registrata ex novo e pubblicata come singolo di “Adolescent Sex” comincia a riscuotere un discreto successo in Europa, cosa che, oltre all’ormai assodato sostegno dei fan nipponici, dona ai Japan il coraggio e le motivazioni per non fermarsi.

In autunno la band intraprende quello che sarà il primo e unico tour americano: quattro date davanti a poche manciate di spettatori. L’insuccesso riaccende le tensioni interne al punto che si sfiora lo scioglimento. La tappa successiva doveva essere l’Australia, ma salta tutto perché Sylvian accusa problemi alle tonsille: dovrà sottoporsi a un intervento chirurgico, da cui si rimetterà in breve tempo; ma la sua voce, per somma fortuna dell’umanità, non sarà più quella di prima.

Nel 1979, prima d’imbarcarsi, a marzo, per il tour giapponese, registrano alcuni demo per il nuovo album. I brani che nascono in questo periodo virano decisi verso un elettro-pop scandito dai synth. La svolta definitiva arriva col singolo “Life In Tokyo”, la cui produzione è affidata al Re Mida della Disco, Giorgio Moroder. Buona parte dell’anno trascorre in tour: marzo in Giappone, aprile in Europa (Germania, Belgio, Olanda) e poi ritorno in Gran Bretagna. La conferma dei “nuovi” Japan arriva a fine anno, quando esce lo splendido e sontuoso Quiet Life.

“È il primo album di cui sono pienamente soddisfatto e lo vedo come un traguardo raggiunto,” dirà Sylvian alla rivista Smash Hits. Classico anello di congiunzione tra un prima e un dopo, l’opera si snoda su ambiziosi arrangiamenti all’insegna dell’eleganza estetica e formale (affidano la produzione, guarda un po’, a Joh  Punter, storico produttore dei Roxy Music) e punta verso un suono moderno che strizza l’occhiolino al Bowie coevo. Su tutto spicca la “nuova”, magnifica voce baritonale di David Sylvian, novello crooner che mutua i fraseggi del Ferry più languido. Il brano che dà il titolo al terzo album dei Japan (uscito anche come singolo) è una sorta di Sacro Graal al quale attingeranno a piene mani i Duran Duran degli esordi (ascoltare, prego, “Planet Earth”) e buona parte dei cosiddetti artisti New Romantic. Sorprende, dunque, l’ennesimo fallimento commerciale.

“Despair” è forse il capolavoro del disco: echi d’esotismo orientale incastonati su un mosaico tipicamente mitteleuropeo. Frastornante e indimenticabile. C’è spazio anche per un omaggio ai Velvet Underground (altro pallino del combo): “All Tomorrow’s Parties” si veste di suggestioni elettroniche lievi eppure squisitamente complesse. In sintesi, sono otto piccole perle dove le trame ritmiche di Steve Jensen si fanno intricate e intriganti, il basso fretless di Mick Karn pervade sinuoso gli arrangiamenti e accarezza la pelle, le tastiere di Richard Barbieri creano sconfinati paesaggi ambient e i contrappunti pianistici cesellano algidi orizzonti dai quali giunge, sublime, la voce di Sylvian a tingere il tutto con melodie oscure, oblique, intrise di passioni languide.

Nella primavera del 1980, dopo il mezzo fallimento del singolo “I Second That Emotion” (caruccio ma nulla più), la Hansa decide di scaricare il gruppo. Alcune major, pur non mostrando troppo entusiasmo, tiepidamente corteggiano. Alla fine, la spunterà quel volpone di Richard Branson con la sua Virgin, sempre attentissimo ai trend. Proprio in quell’anno, infatti, il movimento New Romantic esce dai club londinesi e comincia a conquistarsi le prime pagine delle riviste specializzate: i principali esponenti citano, guarda caso, i Japan tra le loro principali fonti d’ispirazione.

Di punto in bianco la Hansa ci ripensa, ma ormai Sylvian e soci sono decisi a formare per la Virgin. A causa del solito cavillo contrattuale dovranno tuttavia pagare un pesantissimo dazio all’etichetta tedesca. Sul finire dell’estate il gruppo riesce comunque a ultimare le registrazioni del nuovo album, la cui uscita è prevista per novembre.

Gentlemen Take Polaroids riprende e arricchisce i percorsi sonori tracciati dal precedente lavoro. L’esotismo tanto amato da Sylvian permea l’intero album con ammaliante raffinatezza e discrezione, senza mai cadere nell’eccesso; i dogmi del pop easy-listening vengono irrisi con una classe che ha paragoni solo nei Roxy Music (di nuovo…). David Sylvian, ormai leader indiscusso, fa sfoggio di una scintillante maturità compositiva e della sua vocalità tenue e struggente, e finalmente arrivano anche i primi, veri riscontri commerciali. Eppure questo è il momento in cui la band comincia a sfaldarsi.

La title-track apre il lotto insinuando suggestioni decadenti e malate nel cuore della più delicata orecchiabilità: è già troppo tardi quando ci si accorge che è un cavallo di Troia. La resa definitiva arriva però con “Nightporter”, indescrivibilmente bella (e infatti non ci provo nemmeno) e con la conclusiva “Taking Islands To Africa”, scritta da quel Ry?ichi Sakamoto che accompagnerà poi  Sylvian nei suoi futuri percorsi da solista. Da citare, infine, anche l’algida “Burning Bridges”, che incede pericolosamente sulla linea di confine tra plagio e omaggio al David Bowie di “Warszawa”.

I Japan confermano confermano l’amore per il dettaglio e la passione per la miniatura, dando vita a una musica che più d’una volta s’avvicina alla perfezione formale, studiata con rigore geometrico, senza sbavature, e che riesce nell’intento di sposare pop e avanguardia con somma maestria.

Dopo l’usuale giro di concerti in Giappone, Rob Dean decide di lasciare e Sylvian si accolla le parti di chitarra. Nel frattempo, la Hansa ripubblica (naturalmente senza il consenso del gruppo) il singolo “Quite Life”, che questa volta finisce dritto nella Top 20, regalando ai Japan la loro prima apparizione a Top Of The Pops. E finalmente, dopo quattro anni, arriva il successo su scala europea: i Japan sono uno dei gruppi del momento.

Anticipato dal singolo “The Art Of Parties”, nel novembre del 1981 esce l’atteso quinto album, Tin Drum. Pur tra cronici dissidi interni, la band è in stato di grazia e il disco può senz’altro essere definito il loro capolavoro. Mai banale, fascinoso e ispiratissimo, il sound si sposta ancor più verso un’elettro-pop dalle fattezze sublimi, sostenuto dalla magia del basso di Karn e dall’inesauribile creatività ritmica di Jensen; la voce di Sylvian, pur non riuscendo a liberarsi del tutto da certi manierismi, regala brividi.

Nonostante l’immediato successo, Tin Drum non è un disco facile, costruito com’è su idee che nascono in territori tra loro diversissimi: da un lato la passione romantica, dall’altro la glacialità dell’elettronica, e in mezzo la sempre più accentuata fascinazione per la cultura orientale e un’intelligente attitudine al minimalismo, elementi tutti perfettamente compendiati in “Ghosts”, terzo singolo estratto dall’album e loro più grande successo.

All’apice della tanto bramata notorietà, i Japan decidono di sciogliersi. Il tour d’addio, documentato dal live postumo Oil On Canvas (1983), sarà il più lungo e si concluderà il 16 dicembre 1982 a Nagoya, in Giappone.

Troppo frettolosamente archiviati da critica e pubblico dopo lo scioglimento, i Japan rimangono uno degli ensemble più originali e influenti del pop britannico: la loro ricerca sonora è un ponte cesellato di gemme rare e pregiate che collega la cultura mitteleuropea ai giardini zen del Sol Levante, senza tutta la fuffa “new age” da bancarella alla Fiera del Benessere.