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REVIEWSLE RECENSIONI
05/08/2020
Partinico Rose
Songs For Sad And Angry People
Fa strano recensire oggi un disco uscito alla fine dello scorso anno ma d'altronde a volte bisogna uscire dal vortice dell'hype e dell'eterno presente e ritornare sui propri passi. Oltretutto in questo caso parliamo di una band che non ha ricevuto l'attenzione che avrebbe meritato e quindi abbiamo la certezza di non essere fuori tempo massimo.

I Partinico Rose vengono da Ragusa e sono in giro dal 2015. “Songs for Sad and Angry People”, titolo emblematico che riflette i cambiamenti in atto e la generale crisi socio-culturale che stiamo attraversando, è il loro esordio e rappresenta un manifesto piuttosto chiaro delle loro intenzioni.

Pur all’interno di una regione che ci ha sempre abituato ad altre proposte sonore (anche se non mancava una certa attenzione alla scena estrema, basti pensare al discreto successo ottenuto da una realtà particolare come Inchiuvatu) la band di Vincenzo Cannizzo (voce e chitarra) reinterpreta con grande consapevolezza gli stilemi di quello che genericamente si può chiamare Post Punk, un mondo che non è mai veramente passato di moda e che viene ciclicamente riproposto attraverso ricette differenti, strada individuata per appropriarsi di un’identità, piuttosto che mero atteggiamento retromaniaco. Nel caso specifico, questi quattro ragazzi (a Vincenzo si aggiungono Massimo Russo al basso, Carlo Schembari alla batteria e Martina Monaca al violoncello) amano il genere e lo ripropongono con entusiasmo, ancora lontani da una strada davvero personale, ma dimostrando senza dubbio di essere in possesso dei rudimenti del mestiere. 

Si parla di Post Punk e questo è senza dubbio vero nell'atteggiamento generale, improntato ad una ruvidezza del suono e ad una potenza incalzante e ossessiva delle ritmiche, con atmosfere sempre molto cupe. La band interpreta però molto bene anche la lezione del Dark, con richiami non secondari ai Bauhaus, ai Killing Joke, così come ai Cure di “Faith” e “Seventeen Seconds”, seppur riletti in modo più magniloquente. La presenza del violoncello è forse la particolarità più interessante, perché il lavoro di Martina ha il grande merito di inserire interessanti aperture melodiche che vanno a mitigare l’impronta glaciale delle chitarre: notevoli in questo senso “The End of Summer” e “Rehab From You”, dove si avverte anche un certo rimando agli Afghan Whigs. 

La scrittura è buona, utilizza tutti gli accorgimenti del caso, dalla ripetizione ossessiva dei giri armonici ai crescendo ritmici, ai fraseggi di chitarra freddi ma non privi in alcuni momenti di una inaspettata musicalità. Non c’è una traccia che spicchi sulle altre e non ci sono momenti di epifania improvvisa, che permettano di far svettare nettamente questa band sopra la media. Eppure, come opera prima è senz'altro convincente. Tanti i momenti positivi, tra cui la cadenzata “Slave of Time”, che ha anche un ottimo break centrale, “Mysanthropy”, che spinge molto e che è anche molto più massiccia a livello di sound, “Don't Leave Me Alone” con il suo grido accorato, “The Story of Cancer”, che ha un riff vagamente sabbathiano ed è scarna e inesorabile, esattamente come la malattia di cui racconta. E poi “The Revenge” e “Mistakes in my Head”, che mettono in mostra il lato più aggressivo ed heavy del gruppo. 

Hanno sicuramente molto da migliorare ma la strada è quella giusta. Speriamo solo che riescano a farsi conoscere il più possibile e a ricevere attenzioni: sarebbe un peccato che una realtà così promettente passasse sotto silenzio.

 


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