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REVIEWSLE RECENSIONI
01/10/2017
Andrea Cubeddu
Jumpin' Up And Down
Jumpin' Up and Down è un album che tutto sembra tranne un esordio: Andrea Cubeddu affronta i propri pezzi come un bluesman rodato, di quelli che danno la sensazione di aver sempre nuove avventure da raccontare
di Emanuele Bertola

C'è una musica il cui cuore - diceva Walter Mosley - è sepolto dal fango e dal sangue del Delta del Mississippi. Una musica che nonostante la sua veneranda età (ormai è passato più di un secolo se si fanno bene i calcoli) continua a trascinare musicisti e cantautori nelle proprie viscere. E' il fascino del blues, della sua attitudine polverosa, della sua espressività che non ha bisogno di fronzoli per arrivare all'anima e graffiarla, un fascino quasi magico - o diabolico - che rastrella adepti anche a migliaia di km di distanza da quel Delta. Anche nella nostra penisola per fortuna il seme del blues ha piantato radici, e continua a crescere, nonostante il panorama mainstream italiano non abbia riservato negli anni molto spazio alle chitarre slide e a quelle antifonie che rendono il genere unico. La scena blues italiana è brulicante, perennemente in fermento, e così nel 2017 possiamo dare il benvenuto a un volto nuovo (o quasi), il volto giovane del ventiquattrenne Andrea Cubeddu, sardo di nascita (impossibile camuffare l'origine di un cognome tanto particolare) e milanese di adozione. Andrea scopre il blues a 12 anni e se ne innamora. Studia, suona, si esibisce rimbalzando da un palco all'altro, ma soprattutto ascolta, ascolta moltissimo, corre indietro ai vecchi blues, ne percepisce la forza comunicativa e riesce persino a reinterpretarla incantando il pubblico milanese con versioni eccezionali di standard e repertori blues addirittura degli anni '30. Dopo aver consumato per anni le suole delle scarpe e le corde della chitarra in modalità busker, nel 2016 vola a Chicago e si esibisce al Chicago Blues Festival, una tappa fondamentale per il suo percorso di crescita, che gli dà il coraggio e la determinazione per pubblicare, sempre nel 2016, il suo primo EP: "On the street", e a meno di un anno di distanza, il suo LP d'esordio: "Jumpin' Up and Down". Già nel titolo del disco è forse racchiuso tutto: c'è il saltare su e giù dai palchi di una vita on the road, c'è il legame dichiarato con le radici profonde del genere ("Jumpin' Up and Down" è una frase presente nel testo di "Preachin' the Blues" di Son House, anno 1930), e infine c'è il tema portante dei 12 brani contenuti nel disco, quasi fosse una dichiarazione d'intenti, quel "up and down" sia fisico che emotivo di chi ha lasciato la Sardegna per trasferirsi nella caotica Milano, e - volente o nolente - deve cambiare stile di vita, abitudini, punti di vista. In questo senso l'album suona un po' come una sorta di viaggio, un ipotetico treno dalla Barbagia alla Lombardia, con 12 fermate in cui il Nostro imbraccia la chitarra, tiene il bottleneck a portata di mano e racconta le sue sensazioni, e allora tutti in carrozza! Questo treno ferma a:

I sold my soul to the devil: a metà tra lo slide blues più classico e la ritmica country, la voce più vicina al parlato che al cantato e un risultato che resta a metà tra Robert Johnson e Steve Earl.

Blues is gone: Lo slide resta dominante, ma il ritmo si fa più lento, più intimo, più sofferto, la musica cede il passo all'importanza del testo, e in fin dei conti trasforma il pezzo nella traccia forse più blues nel senso puro del termine.

Feel like I'm dead: si resta sul tenore dei primi due brani, ma qui la slide scompare, mentre appare invece qualche elemento di accompagnamento in più, il più evidente è di certo il tamburello, costante ma mai troppo presente.

Don't love me no more: i primi secondi del pezzo sembrano ripiombare nello standard blues più classico, ma è soltanto la sensazione di un attimo, che lascia spazio ad un crescendo ritmico cadenzato e graffiante, poche parole, il titolo ripetuto quasi allo spasmo (ma con un incedere differente durante lo scorrere del pezzo) e tanto spazio alle deviazioni chitarristiche di Andrea, che si dimostra un musicista dalla tecnica più che limpida.

Blues in my veins: curioso il fatto che a fronte di un titolo dichiaratamente blues, tutto il brano si sviluppi in realtà su una ritmica decisamente country, ma si sa, il blues è tanto musica quanto parole, e una canzone che comincia con la frase "I've travelled a long way/I've been a rolling stone" sarebbe blues anche se come base avesse la peggiore dubstep.

Goin' to propose: siamo a metà del disco, e a metà del viaggio, quel momento in cui l'euforia della partenza ormai è andata e si comincia a guardare fuori dal finestrino con una sensazione di tranquillità malinconica, ed è qui che viene fuori la perla, decisamente il brano più riuscito di tutti, un perfetto equilibrio tra le parole - tantissime - e la musica - costante ma inossidabile e capace di prendersi i suoi momenti di protagonismo -, verrebbe da pensare che il disco possa anche chiudersi qui, ma il viaggio è ancora lungo.

Evil Neighbor e Pair of shoes: queste due fermate si percorrono insieme, senza soluzione di continuità nonostante le diverse sonorità, soft e dal canto stanco la prima, più movimentata e vagamente aggressiva la seconda. Le sonorità sono quelle già sentite finora, ma il viaggio continua ad essere decisamente piacevole.

Reveal your soul e What else can I do?: di nuovo, prima un pezzo musicalmente più morbido (ma dal testo decisamente importante), e poi uno con sonorità più ritmate, secche e movimentate. Anche in questi dettagli - probabilmente - risiede l'"up and down" del titolo.

Traveller blues: siamo quasi alla fine, il treno si sta avvicinando alla destinazione finale mentre il cielo si fa buio, e le note lente del penultimo brano cullano e inquietano allo stesso tempo, la voce si fa espressiva come mai finora e questi 6 minuti e 38 secondi scorrono meravigliosamente. Non la ascoltate di giorno, la sua dimensione è la notte.

Unlucky in love: Siamo alla fine, e il blues cede il passo al soul, gli spigoli spariscono, la musica si fa più morbida e avvolgente, ma non se ne sente il distacco con il resto dell'album, un finale coraggioso in un certo senso, ma davvero riuscitissimo.

"Jumpin' Up and Down" è un album che tutto sembra tranne un esordio: Andrea Cubeddu affronta i propri pezzi come un bluesman rodato, di quelli che danno la sensazione di aver sempre nuove avventure da raccontare, l'ascolto fila via quasi senza rendersene conto, l'inglese è impeccabile (cosa non da poco in Italia), e sia la voce che la chitarra non si sbilanciano mai, restano sempre al posto giusto sostenendosi a vicenda per tutti i circa 50 minuti dell'album. Per gli amanti del pelo nell'uovo si può dire che da Evil Neighbor fino a What else can I do? si avverte una certa ripetitività, ma non è detto che sia necessariamente un punto a sfavore.