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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
02/10/2017
Genesis
Selling England By The Pound
Accantonati i tenui pastelli bucolici (Visions Of Angels e Harlequin, ad esempio) e le ruvidissime sfuriate proto metal (The Knife, The Musical Box, Get'em Out By Friday) che avevano caratterizzato i precedenti lavori, i Genesis stanno cercando un suono che abbia l'omogeneità del marchio di fabbrica

Selling England By The Pound (traducibile in italiano con “vendendo l’Inghilterra alla libbra”) si pone come il disco dei Genesis che meglio rappresenta il percorso artistico dell'era gabrielliana, ed è indubbiamente un’opera che ha racchiuso in sé più virtù che vizi di quella stagione musicale che i libri di scuola definiscono come prog-rock. Da un lato, infatti, c'è il tentativo di superare certe convenzioni espressive degli anni '70, imboccando nuovamente la strada della sperimentazione ed elevando la struttura compositiva dei brani a vera e propria scienza architettonica; dall'altro, il lavoro "a tavolino", in voga in quegli anni, e spesso colpevole di imbrigliare la freschezza delle composizioni, cedendo a orpelli di scontato tecnicismo e imboccando derive manieriste sovrabbondanti ed enfatiche, risulta decisamente sfumato. Se il decennio precedente era stato, infatti, caratterizzato dalla ricerca e dalla costruzione dell’ego artistico, i “Seventies” sono gli anni dell’affermazione di quell’ego: la sostanza retrocede innanzi alla forma, la ricercatezza tecnica e i paludamenti stilistici prendono il posto dell’immediatezza creativa. Se è vero che il progressive è l’espressione più compiuta del nuovo corso, è altrettanto vero che molte delle canzoni di Selling England By The Pound, non solo vestono l'abito migliore della sartoria Genesis, ma riescono anche a esprimere un appassionato retroterra romantico che scioglie l’algido involucro formale di cui si fregia il genere. Nel 1973, il gruppo, che ha un seguito maggiore in Europa (Italia in primis) che in patria, sta cercando di realizzare il disco della consacrazione definitiva, quel “capolavoro” che li possa ergere a band di prima grandezza del panorama europeo, e che possa anche aprire loro le porte del mercato americano (cosa che, infatti, riuscirà in parte grazie al singolo I Know What I Like). Gabriel e soci, quindi, vivono le pressioni della cosi detta “ultima spiaggia”: rilasciare l’album che faccia la differenza, sia in termini di critica che di pubblico, oppure sparire nel fitto sottobosco delle migliaia di band che animano, spesso in modo pessimo, la ridondante stagione del progressive. Il quintetto, dunque, entra in studio di registrazione con una consapevolezza maggiore e un approccio alla composizione più maturo e determinato. Accantonati i tenui pastelli bucolici (Visions Of Angels e Harlequin, ad esempio) e le ruvidissime sfuriate proto metal (The Knife, The Musical Box, Get'em Out By Friday) che avevano caratterizzato i precedenti lavori, i Genesis stanno cercando un suono che abbia l'omogeneità del marchio di fabbrica. Su questo si concentra soprattutto il lavoro dei cinque, che realizzano così quello che, in quel momento, apparirà come il passo più innovativo della loro carriera (lo step successivo sarà il più complesso e sperimentale The Lamb Lies Down On Broadway) e vero segno distintivo di Selling England By The Pound: la creazione di un metronomo infallibile dei tempi a incastro e di un’equilibrata coesione degli strumenti, che si scambiano il proscenio senza confliggere o sovrapporsi, che introducono o sostengono l'istrionico e multiforme cantato di Gabriel, alle prese con testi che si fanno sempre più elusivi e misteriosi. Se nei precedenti lavori il tratto era, talvolta, acerbo e ingenuo, e le canzoni assumevano spesso la forma di uno sfumato al limite dell’evanescenza (Looking For Someone) o di accese pennellate naif (la citata The Knife), brani come Firth of Fifth introducono, invece, nella musica dei Genesis, il concetto di affresco. La sinfonia di colori è perfettamente bilanciata: prima, l’introduttiva fuga pianistica di Banks, che suggerisce il tema portante, quindi il tenue ricamo per flauto di Gabriel che lega l'estasi del silenzio al funambolico crescendo del piano, e infine l'epica della sei corde di Hackett, che si scioglie in un caleidoscopio di note. Tutto sospeso a mezz’aria, in un equilibrio quasi divino. Firth of Fifth non è certo un episodio isolato, ma si inserisce in una scaletta di altissima qualità, introdotta magistralmente da Dancing With The Moonlight Knight (con Gabriel nell’inedita veste di polemista politico), la cui struttura, complessa e spiazzante, la dice lunga sullo stato di grazia della band. L'incipit a cappella di Gabriel, la cui enfasi è appena ammorbidita dalla chitarra di Hackett, la progressiva entrata in scena di tutti gli strumenti, il ritmo che accelera, facendosi nervoso e spezzato, e poi la catarsi finale, onirica e seducente, rappresentano uno dei vertici compositivi della band. La citata I Know What I Like, che diverrà uno dei cavalli di battaglia dei concerti del gruppo anche post Gabriel, è invece leggera e inebriante, cerca la strada della melodia orecchiabile, punta alla radio e alle classifiche, ma non tradisce una sola nota che sia banale o scontata. Eppure, nonostante I Know What I Like si discosti, anche per durata, dal corpus centrale del disco, il suono della band è talmente compatto e omogeneo che il brano può stare tranquillamente in scaletta, e senza stridere, con The Battle Of Epping Forest, che ne rappresenta l’opposto concettuale. In questo caso, è Gabriel a far la parte del gigante per undici abbondanti minuti: il suo cantato istrionico, incalzante e multiforme (si spinge, addirittura, fino alla recitazione in slang cockney), è la colonna portante di una suite, nel quale i sopraffini virtuosismi della band (su tutti il drumming nervoso e dispari di Collins) fanno da sottofondo adrenalinico a un racconto di selvaggia violenza ("I'm breaking the legs of the bastards the got me framed!"). Se la strumentale After The Ordeal non aggiunge nulla al quadro d’insieme e sembra messa lì quasi a voler riempire un vuoto, la successiva, e penultima traccia dell'album, è tra le più belle canzoni del repertorio Genesis. Scritta a quattro mani da Banks e Rutheford, The Cinema Show è l'ennesima emozionante suite, in cui le suggestioni testuali di Gabriel (qui alla prova con un racconto che unisce sensualità, letteratura - The Waste Land di T.S. Elliott - e mitologia - l'indovino Tiresia) si sviluppano su una trama musicale che parte tenue e sognante, per poi esplodere repentinamente in un crescendo strumentale sovrastato da un lungo e velocissimo assolo di Banks. Chiude l'album Aisle Of Plenty, un minuto e mezzo senza infamia e senza lode, che riprende il tema principale di Dancing With The Moonlight Knight, come a voler sottolineare la struttura circolare del disco e l'intento di omogeneità che lo pervade. Dopo il successo di Selling England By The Pound, la personalità eccessiva ed egocentrica e le (visionarie) ossessioni in chiave sperimentale di Gabriel diventano ingestibili e i rapporti all'interno della band vanno progressivamente a deteriorarsi. Ci sarà il tempo per un nuovo capolavoro (l’ostico The Lamb Lies Down On Broadway) e poi l'Arcangelo Gabriele se ne andrà sbattendo la porta. Da questo momento in avanti i Genesis, con Collins al comando in veste anche di cantante, vivranno un lento declino, in cui i dischi buoni (The Trick Of The Tail) si alterneranno a prove incolori (Wind And Wuthering) o addirittura mediocri (And Then There Where Three), fino allo spartiacque di Duke, che condurrà il gruppo al successo commerciale ma anche all'anonimato artistico di un insulso pop-rock da classifica (Abacab).