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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
12/10/2017
The Cure
Pornography
Se ascoltare Faith era come toccare il freddo marmo di una lapide, ascoltare Pornography è come spellarsi e scorticarsi le mani per tentare di uscire dalla tomba nella quale si è stati sepolti vivi, mentre poco alla volta l’ossigeno viene meno.

“It doesn’t matter if we all die.” Non importa se tutti moriamo.

Eccolo l’Inferno: è l’incipit di “One Hundred Years”, l’innesco che scatena l’orrore di Pornography. Se interpretata come dichiarazione, allora non ammette repliche, e la cupa violenza espressiva della musica che l’accompagna è l’ultimo, convulso battito di un cuore colto un istante prima di fermarsi per sempre. Siamo nel regno dell’odio e della disperazione, dove ogni afflato vitale perde di significato, dove sogni e desideri sono ridotti a sanguinolenti brandelli che si decompongono e si ricompongono gradualmente in “altro” mentre annaspano in direzione del baratro: un passo ancora e la morte porrà fine a tutte le sofferenze. Pornography è un documento devastante, tragico e sbalorditivamente allarmante sulla natura umana. Forse – se pensiamo che nasce all’interno di un contesto, quello dello show business, il cui fine ultimo dovrebbe essere l’entertainment – tra i più drammatici che siano mai stati prodotti. Prima di varcare la soglia degli inferi, però, Robert Smith regala al suo pubblico una delle sue più belle e dolci canzoni.

“Charlotte Sometimes” viene pubblicata solo su singolo il 5 ottobre del 1981 (accoppiata, sul lato B, a un altro brano che rimarrà inedito, “Splintered In Her Head”). Il testo è ispirato all’omonimo racconto per bambini della scrittrice inglese Penelope Farmer, pubblicato nel 1969 e incentrato sulla protagonista Charlotte, che al suo primo anno di college si trova misteriosamente catapultata in un’altra epoca nella quale non è più Charlotte bensì una ragazza di nome Clare. Da quel momento si troverà ogni notte a vivere un altro tempo, ad essere un’altra persona e dovrà imparare a vivere due vite diverse. “All the faces / all the voices blur / change to one face / change to one voice / Prepare yourself for bed / The light seems bright / and glares on white walls / All the sounds of / Charlotte sometimes.” Il cuore palpita, occhi e bocca si spalancano d’incredulità mentre le orecchie accolgono la meraviglia sonora che fuoriesce dai solchi. Robert/Charlotte è alla ricerca della propria identità, ne percepiamo con chiarezza lo smarrimento, la confusione, ma è qualcosa che paradossalmente non fa paura: la perdita e il ritrovamento dell’identità diventano una cosa sola, cioè la medesima cosa.

Ultimato ai primi di dicembre del 1981 l’”Eight Appereances Tour” (corollario di otto date al “Picture Tour” di supporto a Faith), i tre sospendono l’attività live per dedicarsi a un breve periodo di riposo prima di iniziare a lavorare sul nuovo album. Il piccolo alone di leggenda di cui sono circondate le session tenutesi tra il gennaio e l’aprile del 1982 ai Rak Studios, narra di uno Smith fisicamente a pezzi (fra il ’79 e l’81 i Cure avevano tenuto una media di circa duecento concerti l’anno), mentalmente instabile e disturbato, imbottito di droghe e completamente isolato dalla realtà: “O mi suicidavo o facevo l’album”. Estromesso dalla produzione Mike Hedges a favore di Phil Thornalley, i tre decidono di dormire in studio per risparmiare sul budget: una convivenza forzata che ben presto si trasforma in allucinazione collettiva e conflittuale. In un angolo dello studio edificano una piramide fatta con cadaveri di lattine e bottiglie, simbolo della costruzione del vuoto esistenziale che i Cure stanno tentando di raccontare praticamente in diretta: “In PORNOGRAPHY catalizzai tutti gli elementi autodistruttivi della mia personalità,” dirà Smith. “Ero odioso, orribile e schifosamente egocentrico.” Dopo tre mesi di eccessi e violentissimi conflitti interni, i Cure portano a termine le registrazioni e passano alla fase di missaggio.

Pornography esce il 4 maggio del 1982 (nessun singolo anticipatorio, questa volta) ed è quasi d’obbligo – come fosse parte dell’opera stessa – citare la celebre definizione con cui Dave Hill chiudeva la sua recensione su NME: “Phil Spector all’inferno”. Già, perché il wall of sound del disco non fa prigionieri, è una forza d’urto devastante che stermina ogni residuo di speranza e fiducia. Non c’è vergogna, non c’è ritegno nel suo deturpante dispiegarsi di orrori, simbolici e non, che emergono dallo squilibrio interiore esalando il putrescente, solforoso olezzo della geenna. Se ascoltare Faith era come toccare il freddo marmo di una lapide, ascoltare Pornography è come  spellarsi e scorticarsi le mani per tentare di uscire dalla tomba nella quale si è stati sepolti vivi, mentre poco alla volta l’ossigeno viene meno. Il rutilante tribalismo del drumming, pesantissimo e in primo piano nel missaggio finale, è molto lontano sia dalle pulsazioni cold-wave di Seventeen Seconds sia da dalle scansioni ipnotiche e ottundenti di Faith, ed è arricchito dalla drum-machine; le chitarre, non più languide e liquide, sono ora distorte e cariche di un’abrasività acida che sta a un passo dalla dissonanza, mentre il basso di Gallup traccia le solite linee maligne che s’innestano sugli arazzi malevolmente elegiaci tratteggiati dalle tastiere.

Pornography è questa disgustosa ode al disgusto (di sé e degli altri) che rischia più di una volta di sconfinare nell’apologia dell’omicidio. Nessun compromesso: uccidere o cedere alle freudiane pulsioni di morte. Questa interminabile epopea dell’assurdità patologica, questa disinteressata contemplazione dell’orrore, questo inevitabile disintegrarsi della coscienza non ha nulla a che vedere con l’emarginazione sociale: il mondo dei Cure è interamente rivolto all’emarginazione interiore, al disgregarsi del sé operato dalle informi creature, abominevoli e degenerate, che si baciano sotto la pioggia in “The Hanging Garden”. Senza concedere un attimo di respiro, queste canzoni alienate, che s’avvicendano come nembi color pece e piangono sangue “su le sciagure umane”, sono la voce, ora soffocata e appena udibile, ora lancinante e angosciata, di una generazione che s’appropria del rifiuto del sublime ed erge a proprio vessillo un nichilismo che si potrebbe definire crepuscolare e il cui emblema è identificabile nell’uomo spettrale, quasi diafano di “The Figurehead”. Arido e pomposo per alcuni, sublime e maledetto per altri, Pornography rimane, in ogni caso, se non il più amato, senz’altro il più discusso album dei Cure.

Sempre in luglio, la band decide di pubblicare in edizione limitata un doppio sette pollici dal laconico titolo “A Single”, contenente “The Hanging Garden” e “One Hundred Years” (tratte dall’ultimo lavoro) assieme a due brani live, “A Forest” e “Killing An Arab”, provenienti dal concerto all’Apollo di Manchester del 27 aprile 1982, decima data del Fourteen Explicit Moments Tour che aveva preso il via a Plymouth un paio di settimane prima. È durante questo tour che si delinea compiutamente anche l’immagine iconica dei Cure: rossetto sbavato sulle labbra (e, in questo periodo, anche intorno agli occhi), capelli spiritati, abbigliamento nero o bianco (più raramente grigio). L’umore dell’intero entourage era a dir poco pessimo e quando il tour approdò sul continente europeo (col titolo mutato in Pornography Tour), il rapporto tra Smith e Gallup si era ormai deteriorato al punto che i due, dopo il concerto di Strasburgo del 27 maggio, i due arrivarono alle mani. Era la fine dei Cure. Fine, tuttavia, che venne posticipata di un paio di settimane per portare a termine gli impegni contrattuali che prevedevano ancora dieci concerti.

L’atto finale dei Cure ebbe luogo l’11 giugno 1982 all’Ancienne Belgique di Bruxelles. Il concerto fu piuttosto brutto e piatto, secondo Robert, e “durante il bis, Biddle [un roadie, N.d.A.] salì sul palco e iniziò a cantare ‘Smith è un segaiolo! Tolhurst è un segaiolo! Solo Simon vale qualcosa in questa band!’ Io stavo suonando la batteria. Mi fermai di colpo, gli lanciai le bacchette sulla testa e gli dissi di andare affanculo. Ci guardammo tutti quanti… era arrivata la fine.” (Il “brano” che i Cure stavano suonando in quel momento era un’orrida improvvisazione estemporanea nella quale i tre si erano scambiati gli strumenti, e che è nota col titolo fittizio - e postumo, in tutti i sensi - di The Cure Are Dead.)

L’eponimo brano conclusivo di “Pornography” si apre direttamente sull’Inferno: voci alterate e confuse, bisbigli, mormorii e stridenti ronzii fanno da preludio all’imminente cacofonia che inghiottirà l’ascoltatore nelle viscere melmose e porno-claustrofobiche dell’insensibilità fisica e morale, mentre Smith canta con “una mano in bocca” la sua “vita riversa nei fiori”:

 

…abbiamo un aspetto perfetto

mentre cadiamo.

In un bagliore elettrico,

il vecchio cede all’età…

[…]

Echi attorno al letto sudato,

acidi suoni gialli dentro la mia testa,

nei libri

e nei film

e nella vita

e nei cieli

il suono dello scempio…

[…]

Un altro giorno come questo e ti ucciderò,

un desiderio di carne

e di sangue vero,

ti guarderò annegare nella doccia

spingendo la mia vita attraverso i tuoi occhi spalancati.

 

Devo combattere questo malessere,

trovare una cura,

devo combattere questo malessere.

 

I Cure muoiono qui, nel tentativo di combattere un malessere che non può essere vinto. Di lì a pochi mesi (sei, per l’esattezza) scopriranno che il solo modo per sopravvivere, la sola “cura”, è cedere ai compromessi: si allineeranno alle regole e diventeranno uno dei gruppi pop più popolari di ogni tempo.

Eppure, permane il sospetto che il vero Inferno non sia tanto quello di Pornography quanto quello di “Let’s Go To Bed”, di “The Walk”, di “The Lovecats” e della sfilza di innocui successi inanellati nei dieci e più anni successivi. E questo sospetto permea tutta la produzione dei Cure post-Pornography (con l’eccezione, forse, di The Top), come quella dolcissima punta di malinconia ancestrale che ogni uomo si porta dentro e che nasce dalla dicotomia tra l’illusione della libertà e la consapevolezza della schiavitù.


TAGS: goth | pornography | thecure