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REVIEWSLE RECENSIONI
18/10/2017
Motorpsycho
The Tower
Una band lontana dai riflettori, a cui non si addice l’etichetta “Mainstream” ma che allo stesso tempo ha raccolto e raccoglie molti più consensi di quanto sarebbe lecito aspettarsi da chi offre una proposta così ostica e sofisticata come la loro.

Se avessi scoperto una band come i Motorpsycho nel periodo dell’adolescenza, probabilmente ne sarei diventato dipendente e la mia storia di ascoltatore avrebbe seguito un corso totalmente diverso. Purtroppo il gruppo di Trondheim ha incrociato la mia strada molti anni dopo, quando il tempo ormai era quello che era e le possibilità di immergersi a tempo indefinito nella discografia di una band si erano assottigliate in maniera significativa.

Peccato, perché qui si sta parlando di un gruppo gigantesco, uno dei più grandi che abbia mai solcato i nostri orizzonti. Venti e passa anni di storia, 18 dischi in studio senza contare le diverse collaborazioni e progetti speciali nei quali si sono lanciati a più riprese, un numero incalcolabile di Ep e, quel che è più importante, un calo qualitativo di molto vicino allo zero. Hanno esplorato milioni diversi di generi musicali, sono passati dallo Stoner al Doom, dall’alternative al Progressive, dal Rock anni ’70 alla Psichedelia, riuscendo sempre a suonare diversi, a mutarsi di volta in volta in una band altra da quella precedente, ma allo stesso tempo a conservare un marchio di fabbrica unico ed omogeneo, un’etica indefessa del lavoro e della passione che l’hanno circondata di un pubblico fedele e dedito alla causa quale mai si è visto nella storia del Rock, se non in rarissime occasioni.

Una band lontana dai riflettori, a cui non si addice l’etichetta “Mainstream” ma che allo stesso tempo ha raccolto e raccoglie molti più consensi di quanto sarebbe lecito aspettarsi da chi offre una proposta così ostica e sofisticata come la loro.

In poche parole, i Motorpsycho sono uno di quei gruppi per cui si può perdere la testa senza possibilità di riaverla indietro, un viaggio senza ritorno che riserva sorprese e incredibili avventure ad ogni singola tappa.

Lo posso ben dire io, che non sto ascoltando altro da tempo, nonostante tutta la mole di dischi nuovi che chiederebbero la mia attenzione a ogni piè sospinto.

Per fortuna, nel frattempo anche il duo norvegese (divenuto tale dopo l’abbandono nel 2005 del batterista e polistrumentista Håkon Gebhardt) ne ha fatto uscire uno. Che non è poi un dato sorprendente, visto che praticamente da sempre incidono qualcosa ogni due anni, a volte ogni uno, con una puntualità che francamente ha dell’imbarazzante.

E qui veniamo all’altra cosa assurda. Perché non è che questi dischi abbiano un minutaggio per così dire ridotto. No, si assestano sempre sui 60 minuti abbondanti, a volte li superano e il formato doppio è una soluzione che non disdegnano, specie nell’ultimo periodo.

Per cui ecco arrivare “The Tower”, dieci canzoni per quasi un’ora e mezza di durata, seguito di quel “Here Be Monsters” che già corto non era, con quella sua seconda parte uscita solo su vinile, che comprendeva una title track da 25 minuti che i nostri si stanno divertendo ad eseguire per intero in chiusura dei concerti europei che stanno tenendo proprio in questi giorni.

Ora, voi direte, cosa potremmo mai aspettarci di nuovo da una band che incide musica dai primi anni ’90 e che ha esplorato l’inesplorabile nel campo dei vari generi disponibili?

La risposta non è scontata e non è neppure così semplice. “The Tower” è un disco a due facce. È apparentemente complesso ma, allo stesso tempo, è straordinariamente semplice, almeno per chi conosce a grandi linee le vicissitudini del gruppo.

È complesso perché, su dieci brani che lo compongono, solo due sono di durata contenuta e sono facilmente decifrabili: “The Maypole”, che apre il secondo cd e “Stardust” vivono di quelle atmosfere acustiche e bucoliche stile “Led Zeppelin IV” e possono a tratti richiamare il periodo della trilogia “Let ‘Em Eat Cake”, “It’s A Love Cult”, “Phanerothyme”, che esploravano in maniera consistente gli anni ’70.

Per il resto, le restanti tracce si aggirano tutte tra i sette e i quindici minuti di durata, muovendosi bene o male in quei territori psichedelici e Space Rock che hanno caratterizzato molto della loro produzione più recente, da “Little Lucid Moments” a “Heavy Metal Fruit”, a “Still Life With Eggplant”. Niente di nuovo sotto il sole, quindi. I nostri ci hanno ormai da tempo abituato a riffoni dal sapore cosmico, cavalcante incessanti e lunghe Jam dove, più che il virtuosismo, a prevalere è quell’atmosfera ipnotica che attrae irresistibilmente verso il centro della loro musica.

Fa eccezione forse la sola “A Pacific Sonata”, che è il brano più lungo e che presenta una prima sezione totalmente acustica, con una bellissima parte solista nel mezzo, prima di trasformarsi in un Trip lisergico dove la ripetizione ossessiva della stessa idea le conferisce un’aurea di fascino assoluto.

Per chi non li conoscesse bene, l’ascolto di una tale mole di roba potrebbe davvero rivelarsi difficoltosa e anche un po' stancante, visto il genere proposto. Per i fan della band, invece, il discorso è diverso: “The Tower”, almeno per quanto mi riguarda, è un disco nel complesso più ispirato degli ultimi lavori e, pur non potendo dire che sia tutto indispensabile e dovendo ammettere che qua e là ci si muove anche con l’astuzia del mestiere, siamo comunque al cospetto di un prodotto che rispecchia la grandezza del gruppo che lo ha prodotto. Oltretutto, per una volta, pur se all’interno di una formula particolare, ci sembra che molti degli episodi siano più accessibili del normale. In poche parole, se siete dei neofiti e non sapete da dove incominciare, forse questo potrebbe essere un buon punto di partenza, prima di buttarsi sui capolavori del passato (che comunque suonano in maniera totalmente differente).

Per quanto mi riguarda, il conto alla rovescia per vederli dal vivo è già iniziato.