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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
24/10/2017
Alan Sorrenti
Aria
Alan Sorrenti, però, non è mai derivativo; lo si potrebbe definire, al contrario, un innovatore, in grado di trasfigurare ciò che, nelle mani di altri, sarebbe da derubricare a tritume sentimentalistico.
di Vlad Tepes

Ascritto con perdurante pervicacia al progressive (anzi, fra i più alti esiti della stagione, oggi rimpianta sino al fanatismo), Aria rimane, invece, una manifestazione unica di psichedelia folk. Psichedelia poiché insiste, specie nella prima omonima, celeberrima traccia, sulla dilatazione atmosferica ottenuta dai vocalizzi del cantante (a mezzo fra Buckley e Hammill) uniti a testi evocativi e vagamente esotici. Folk perché fu quello il punto d’appoggio su cui fare leva per dipartirsi verso fughe sonore incorporee e fascinosamente liquide.

A differenziarlo dalla media del periodo fu anche l’estrema cura della produzione e una line-up eccellente: fra gli altri Tony Esposito alle percussioni, Luciano Cilio al piano e Jean-Luc Ponty al violino (nella suite iniziale).

Il lato cantautoriale prevale nella seconda traccia, “Vorrei incontrarti” (non a caso il singolo tratto dall’album), ma già con “La mia mente” e “Un fiume tranquillo” (bellissima) si riparte: Sorrenti, grazie alla propria voce, attinge a momenti d’eccezionale intensità che richiamano, nell’immaginario dei Settanta, le fluviali sortite introspettive dei Van Der Graaf Generator.

Alan Sorrenti, però, non è mai derivativo; lo si potrebbe definire, al contrario, un innovatore, in grado di trasfigurare ciò che, nelle mani di altri, sarebbe da derubricare a tritume sentimentalistico. Come spesso accade, la sua potente originalità, deviando dal ceppo melodico italiano (sfruttato, invece, da altri eroi di quell’età prolifica, PFM su tutti), non venne raccolta da nessun epigono.

Sorrenti stesso la rinnegò consegnandosi, di lì a poco, a un destino commerciale parecchio lucroso, seppur non indegno.