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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
31/10/2017
Electrelane
Rock it to the moon
L’opera si fonda, in larga parte, ma non esclusivamente, come si vedrà, sulle due caratteristiche anzidette: una struttura che contempla stasi e brucianti accelerazioni nonché un gusto divertito per il pop d’antan
di Vlad Tepes

Quartetto femminile di Brighton (Verity Susman, tastiere; Emma Gaze, batteria; Mia Clarke, chitarra; Rachel Dalley, basso), Electrelane pervennero alla loro creazione più riuscita nel disco d’esordio, raccolta di undici strumentali[1] bifronti che riutilizzano con successo scampoli apparentemente inservibili di ritmi sixties.

L’opera si fonda, in larga parte, ma non esclusivamente, come si vedrà, sulle due caratteristiche anzidette: una struttura che contempla stasi e brucianti accelerazioni nonché un gusto divertito per il pop d’antan, quest’ultimo organizzato ed indirizzato dalle tastiere della Susman, talmente essenziali e caratterizzanti, almeno nella prima parte del disco, da emarginare il resto del gruppo.

“Long Dark” è l’epitome delle notazioni anzidette: l’inizio interlocutorio, con isolati accordi chitarristici, è improvvisamente acceso da un accelerato ritmo surf (Duane Eddy) presto prevaricato da un organo trascinante e sbarazzino nelle citazioni (è il turno di Pop Corn). La derubricazione a metronomo elementare della sezione ritmica è il prezzo da pagare per sostenere queste travolgenti fughe revival.

L’ottima “Gabriel”, “Blue Struggler” e “Many Peaks” confermano tale costruzione anfibia, mentre “Film Music”, irresistibile centone organistico di musica per film anni Sessanta, è l’apice, con accenti parodistici, ma sempre scanzonati, della felice vena rievocativa.

“Spartakiade”, breve tirata garage ritmata da battimani, e, soprattutto, “U.O.R.”, in cui la chitarra parte con strappi improvvisi o ristagna in pozze elettriche e noise, ritagliano a Mia Clarke un ruolo di rilievo e annunciano il vero quanto inopinato cambio di registro degli ultimi due pezzi: la plumbea monotonia di “The Boat” depura il suono dal leggero tono pregresso e introduce agli undici minuti di cupa psichedelia di “Mother”[2] in cui le percussioni scarnite e le tastiere spettrali riecheggiano, non a sproposito una volta tanto, l’incedere di “Sister Ray”.

L’inaspettato finale, rispetto ai toni quasi beat delle tracce più famose, rende spessore all’opera e fissa in un felicissimo chiaroscuro la definitiva nuance.

[1] Eccezion fatta per il trascurabile cantato di Spartakiade.

[2] In realtà una traccia di ventidue minuti comprendente un lungo silenzio centrale e una breve chiusa acustica.