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REVIEWSLE RECENSIONI
24/11/2017
Giorgieness
Siamo tutti stanchi
Non ho ancora capito se questa ragazza valtellinese stia portando avanti una carriera da solista oppure se sia la leader di una vera e propria band. Sicuramente questo disco rappresenta un bel passo avanti rispetto a “La giusta distanza” e non a caso sembra che in molti se ne stiano accorgendo.

La prima volta che ho scritto di Giorgia d’Eraclea era stato un paio di estati fa, dopo averla vista aprire i Verdena al parco Tittoni di Desio. Era stata un’esibizione convincente, lei una grande frontman, tanta grinta e una potenza vocale invidiabile. Le canzoni però mi avevano convinto poco e avevo dunque rimandato a data da destinarsi una valutazione più completa.

Oggi che è uscito “Siamo tutti stanchi”, secondo lavoro in studio del progetto Giorgieness, sono quindi molto felice di poter rivedere il mio giudizio.

Non ho ancora capito se questa ragazza valtellinese stia portando avanti una carriera da solista oppure se sia la leader di una vera e propria band. Sicuramente questo disco rappresenta un bel passo avanti rispetto a “La giusta distanza” e non a caso sembra che in molti se ne stiano accorgendo.

Che una ragazza di 25 anni decida di intitolare un album così, getta sicuramente qualche interrogativo. Cosa è successo al mondo? Cosa è successo alle nuove generazioni? Possibile che siano già tutti vecchi, come canta in un’omonima canzone del disco? Beh sì, certo che è possibile. Se c'è un’epoca in cui il “No Future” che urlavano i Sex Pistols quarant’anni fa è divenuto reale, credo sia proprio la nostra. “Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero?”. Così Vasco Brondi nel suo primo disco e sono già passati dieci anni, quasi. Per cui non stupiamoci dell’uscita sempre più frequente di lavori che parlano di sconfitte, incisi da gente che, francamente, dovrebbe avere ancora tutta la strada aperta, illuminata e spalancata davanti a sé. Invece si parla già di convivenze fallite (“Che cosa resta”) di rapporti che vorrebbero funzionare e non funzionano (“Controllo”), della sottile differenza che passa tra la realtà e la sua rappresentazione (“Fotocamera”), di quanto sia terribile e nello stesso tempo magnifico riscoprire la propria condizione (“Umana”). Il ritratto perfetto di una generazione frantumata, senza centro, senza una chiave di lettura, perfettamente rappresentata da una copertina che spezza il volto raffigurato come avrebbe potuto farlo un pittore postmoderno.

Sono temi triti e ritriti, se vogliamo, ma raccontati con sincerità e senza nessuna concessione all’edonismo. Giorgia, alla fin fine, è la ragazza della porta accanto che ama ascoltare i dischi e andare ai concerti, non certo una diva atteggiata a nuova protagonista della scena Indie (e lo potrebbe pure diventare, una protagonista, se le cose vanno avanti così).

Meglio tagliare corto, comunque: l’ingrediente di base rimane sempre quel rock diretto e senza fronzoli, tirato ed emozionale a tratti, un po' più rallentato e d’atmosfera in altri, con una discreta dose di elettronica in sottofondo, ad infarcire il suono senza essere mai troppo invadente.

Il chitarrista Davide Lasala è sempre impeccabile nella sua prova in studio e anche dietro la consolle: il disco suona magnificamente ed è apprezzabile soprattutto la maggiore varietà in sede di arrangiamento. Ci sono molte più chitarre acustiche, c'è una maggiore stratificazione, una maggiore volontà di andare al cuore di ogni singolo pezzo, di donare a ciascuno un’impronta unica, ben connotata, senza per forza dover giocare la carta dell’esibizione muscolare a tutti i costi. Laddove il precedente lavoro puntava molto sulla distorsione e sull’impatto delle chitarre, qui c'è una maggiore attenzione ai dettagli e alle architetture sonore; le melodie, come logica conseguenza, risaltano di più. Questo è anche merito di Giorgia, che ha passato quella fase in cui bisogna dimostrare a tutti di avere la voce e si comincia invece ad usarla con intelligenza, dosandone tutte le possibilità. “Calamite”, da questo punto di vista, è un bell’esempio: potente e aggressiva come sempre ma molto più espressiva e attenta all’interpretazione. Ecco, qualcuno dovrebbe dirlo a Levante, che si può cantare bene anche senza urlare (scusate la cattiveria ma non ho resistito!)…

Il vestito è migliore ma sono migliori anche i brani, è evidente. C'è una scrittura rimessa a nuovo che spazia tra cavalcate grintose (la già citata “Calamite”, “Dimmi dimmi”, “Controllo”), poderosi mid tempo (l’iniziale “Avete tutti ragione”, ), episodi più melodici e sofferti (“Vecchi”, “Mya”, “Che cosa resta”). Un lavoro vario, che si fa ascoltare con piacere e che ci fa scoprire ulteriormente un’artista che forse non rimarrà a lungo una tra le tante.

L'hanno paragonata più volte a Pj Harvey e in alcune delle ultime recensioni questo nome è tornato fuori. Mi è piaciuto molto quello che ha detto lei l’anno scorso, quando glielo hanno tirato fuori durante un’intervista: ha raccontato che quando Polly Jean è venuta a Milano l’ultima volta lei era in prima fila, attaccata alla transenna e alla fine del concerto voleva smettere di cantare.

La verità è che ognuno ha il suo percorso e che, se è inutile scomodare certi mostri sacri, siamo comunque al cospetto di qualcuno che merita di essere ascoltato senza riserve.