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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
Temple of the morning star (1997)/In the eyes of God (1999)
Today Is the Day
PUNK / HARDCORE NOISE / GARAGE / INDUSTRIAL
all RE-LOUDD
02/12/2017
Today Is the Day
Temple of the morning star (1997)/In the eyes of God (1999)
I Today Is the Day, come i Baroness, rielaborano stili e luoghi comuni delle varie declinazioni metal e dell'estremismo hardcore, ma riescono a sintetizzarne i motivi meno banali e a riproporli con una potenza nichilista inaudita.
di Vlad Tepes

Formati a Nashville (Tennessee) dal cantante e chitarrista Steve Austin[1], i Today Is the Day, come i Baroness, rielaborano stili e luoghi comuni delle varie declinazioni metal e dell'estremismo hardcore, ma riescono a sintetizzarne i motivi meno banali e a riproporli con una potenza nichilista inaudita.

Evidentemente disgustato dai minestroni country di Nashville (vedi The man who loves to hurt himself), Austin elabora una propria definitiva Weltanschauung: i versi “I wake in cold sweat/And there is no one/ Who cares this life/No life/It's killing me/I am slowly dying/I can't be what you want me to be/I am dead”, tratti da uno dei capolavori degli anni Novanta, l'eponima “Temple Of The Morning Star”, chiarisce un'estetica desolata e senza sbocco, ai limiti dell'incomunicabilità, ormai dimentica del trovarobato da riflusso metal anni Ottanta. A parte gli episodi death più brucianti (“Crutch”, “Blind Spot”, “High As The Sky”, la sabbathiana “Miracle”), comunque straniati da cauti, ma decisivi interventi elettronici, non mancano episodi di folk scurissimo come “I See You” o “Friend For Life”, pachidermi alla Melvins (“Hermaphrodite”), messe nere distorte (“Satan Is Alive”), recuperi superclassici (la coda di “Sabbath Bloody Sabbath”).

Nel successivo In The Eyes Of God la tendenza rapsodica di Austin porta alla frantumazione in venti tracce, la maggior parte delle quali sotto i tre minuti: alcune traggono linfa dagli spunti più disparati (cori indiani, arie medioevali, estratti da film ...)  anche se il cuore peculiare del disco rimane un grindcore al fulmicotone spinto da una strepitosa sezione ritmica, formata dai nuovi Bill Kelliher e Bran Dailor, già membri dei Lethargy e poi fondatori dei micidiali Mastodon. Non mancano, tra le pieghe, accorti rallentamenti (“Mayari”), ma la ricca varietà del precedente lavoro è perduta a favore di un monocromatismo in cui Austin può sfogare senza riserve le proprie ansie autodistruttive.

Il risultato, comunque, è, di gran lunga, superiore alla media; il rischio dell'uniformità, stavolta, viene impedito dall'empatia negativa del leader che puntella costantemente il disco. Lo stesso Austin, probabilmente, intuì che la nuova strada non poteva che portare progressivamente al manierismo. Col seguito, il doppio Sadness Will Prevail, egli tornerà perciò alle manipolazioni elettroniche e alla ricchezza di Temple Of The Morning Star dando vita al secondo, indiscusso, capolavoro del gruppo.

 

[1] Assieme a lui, in un primo tempo, Mike Herrell (basso) e Brad Elrod (batteria), poi sostituiti, in Temple of the morning star, da Scott Wexton e Mike Hyde, a loro volta rimpiazzati, nel successivo lavoro del 1999, dalla sezione ritmica dei Lethargy,  Bill Kelliher e Bran Dailor.