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REVIEWSLE RECENSIONI
10/12/2017
Kid Rock
Sweet Southern Sugar
Sweet Southern Sugar è l’ennesimo capitolo (l’undicesimo, ahimè) di una discografia che a definire prescindibile si rischia una condanna per abuso di eufemismo

Talvolta, mi tocca recensire cd che, lo dico con consapevole snobismo, preferirei utilizzare come sottobicchieri per la birra. E lo dico con altrettanta sincerità, nonostante la mia formazione da americanista, pochi artisti (si fa per dire) trovo tanto lontane dalla mia sensibilità come il quarantaseienne Kid Rock. E intendo sia il personaggio che la musica che propone. Kid Rock, per chi non conoscesse l’uomo, è uno stereotipo sotto mentite spoglie umane, che racchiude in sé tutto il peggio dell’estetica e della filosofia trumpiana (inutile dire che quando penso a Trump non riesco nemmeno a immaginarlo il meglio). Guerrafondaio, paladino delle colt pret a porter e metre a penser di tutta quell’estetica pacchiana e consunta da far west, in cui lo zenit dell’eleganza è rappresentato da un paio di stivali, un cappellaccio a tese larghe e un putrido sigaraccio perennemente in bocca, Robert James Ritchie, questo il suo vero nome, continua a imperversare con dischi muffiti e di grana grossa. Il che è sempre meglio della realizzazione delle sue velleità politiche (ha più volte espresso il desiderio di candidarsi nelle fila del Partito Repubblicano), perché visto i tempi che corrono e lo stato dell’arte della scena politica a stelle e strisce, rischieremmo di trovarcelo senatore del Michigan, stato che inopinatamente gli ha dato i natali. Sweet Southern Sugar è l’ennesimo capitolo (l’undicesimo, ahimè) di una discografia che a definire prescindibile si rischia una condanna per abuso di eufemismo. In questi dieci brani (che, ariahimè, ho dovuto ascoltare per ben tre volte), è racchiuso tutto il Kid Rock pensiero; il quale, tenuto conto dell’impalpabile leggerezza del contenuto intellettuale, poteva tranquillamente trovare requie in una sola canzone, con buona pace delle mie e delle vostre orecchie. Invece, no. Questa nuova fatica (si fa per dire) racchiude quanto abbiamo già dovuto ascoltare in tutti i capitoli precedenti: oltre alla fastidiosa cifra estetica del pistolero sbruffone col vizietto del whisky e la reiterazione parodistica perfino delle coordinate geografiche sudiste (dal Tennesse a Memphis vengono riproposti tutti i “luoghi comuni” della più classica cartina southern), abbiamo a che fare con riff rubati dal repertorio di Lynyrd Skynyrd, Outlaw e Black Crowes, tanto per citare le più ovvie fonti d’ispirazione (Tennesse Mountain Top) , ballatone di plastica che nemmeno il più annoiato Bryan Adams (American Rock’n’Roll), hard rock caciarone e tamarro tutto muscoli e niente cervello (Greatest Show On Heart), pasticci tra funky ed elettronica (I Wonder), orripilanti rap in salsa chitarristica (Grandpa’s Jam) e insulse derive pop da FM (Sugar Pie Honey Bunch). Il tutto sigillato in una delle più brutte copertine degli anni ’00, sulla quale, caso strano, compare anche, per quanto stilizzata, un donna nuda. Come a volerci ricordare che la cosa migliore che ha fatto Kid Rock nella sua carriera è stata quella di sposare Pamela Anderson. Amen.