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REVIEWSLE RECENSIONI
23/01/2018
Melissa Plett
Ghost Town
Ghost Town è un disco in cui la Plett rielabora le proprie pene, cercando nella musica la forza per reagire alle angherie della vita, un modo per mettere sul pentagramma note e lacrime, accordi e amare riflessioni, e trovare l’abbrivio per ricominciare, nonostante tutto.

Canadese di Montreal, Melissa Plett è un’artista poco nota dalle nostre parti e che merita, tuttavia, di essere raccontata attraverso questo suo nuovo disco, secondo full lenght in carriera, uscito sul finire dello scorso anno. Un album, Ghost Town, che piacerà a tutti coloro che seguono il genere americana, rivisitato dalla Plett, in questo caso, con ombroso piglio personale e inaspettati accenti rock.

Come evocato dal titolo, in questa musica aleggiano molti fantasmi, quelli che Melissa si porta dietro ormai da anni. Fantasmi che evocano il dolore di una vita difficile, segnata all’età di tredici anni da un pauroso incidente automobilistico, in cui la songwriter canadese perse la cugina e si salvò per miracolo, dopo un lungo ricovero in ospedale.

E poi, la recente perdita della mamma a causa di un tumore al cervello, lutto che ha avuto effetti devastanti su Melissa, tanto da costringerla ad abbandonare le scene per più di un anno. Ghost Town è quindi un ritorno in nero, un disco in cui la Plett rielabora le proprie pene, cercando nella musica la forza per reagire alle angherie della vita, un modo per mettere sul pentagramma note e lacrime, accordi e amare riflessioni, e trovare l’abbrivio per ricominciare, nonostante tutto.

Un disco breve (poco meno di mezz’ora la durata) ma intenso, registrato a Nashville presso gli Omnisound Studios, con l’aiuto e la guida di Pat Severs, noto musicista e produttore locale, e la collaborazione di un pugno di validi sessionisti. Non siamo però di fronte al classico disco country nashvilliano: come dicevano, infatti, il mood è crepuscolare e la Plett è brava a trovare equilibrio fra testi densi di riflessioni agrodolci e composizioni che alternano momenti frizzanti ad altri più intimi e raccolti.  

Così, se l’iniziale Stay è un languido country attraversato dalle malinconiche note di un violino, la successiva Handle Of Whisky, la bottiglia come lenimento al dolore, è un brano venato di rock e dall’andamento caracollante, mentre Sunshine And Liquor procede dritta e grintosa, accelerando il passo e sfoderando un bell’interplay fra chitarre elettriche e acustiche. I momenti migliori, però, arrivano alla fine del disco, con la cupa Trigger, murder ballad dalle atmosfere livide e dal testo inquietante e violento, e con la mestissima Gone, in cui Melissa sfodera una performance vocale di grande suggestione.

La Plett, in definitiva, porta a casa il risultato pieno, dimostrando di avere talento da vendere, sia come cantante che come songwriter, e la misura di quest’album, asciutto e centrato, fa presagire grandi cose nel futuro artistico della ragazza. La quale, così come ha superato le tribolazioni della propria vita, ha tutte le carte in regola per aggiudicarsi uno spazio importante nella variegata, ma non sempre qualitativa, scena nashvilliana.