Avevamo lasciato Cody Jinks nel 2016 con I’m Not The Devil, uno dei dischi di Americana più interessanti dell’anno, e il lavoro che ha dato una decisivo impulso alla carriera del songwriter texano, entrato per la prima volta nei piani alti delle classifiche di genere.
Nel 2017, Jinks ha iniziato a lavorare ai brani di questo nuovo Lifers, ha remixato e rimasterizzato Less Wise, full lenght del 2010, ripubblicandolo con l’aggiunta di tre brani, e si è cimentato (pericolosamente) in un’intensa e riuscita cover di Wish You Were Here dei Pink Floyd, exploit che gli ha procurato più di due milioni di visualizzazioni su facebook.
Il nuovo Cody Jinks, dunque, è un artista maturo, proiettato verso un futuro ricco di soddisfazioni, un artista consapevole delle proprie capacità di songwriter e forte di un vocione pazzesco, che gli permette di interpretare qualunque cosa, anche grandi classici della letteratura rock, con la sicurezza di chi sa di poter aggiungere sfumature nuove e nuova linfa vitale anche al risaputo.
Inserito, a ragione, tra gli epigoni di quella tradizione outlaw country, che annovera fra i padri putativi gente del calibro Waylon Jennings e Willie Nelson, Jinks esce oggi con il suo disco migliore, un’opera che rilegge un genere già ben codificato, se non con originalità, quantomeno con energia e passione. Ci sono ottime canzoni, in Lifers, che Jink snocciola con sincerità e con quel quid di autorevolezza che gli deriva da un incredibile backup band, composta da Joshua Thompson al basso (che produce in condominio con Arthur Penhallow), Dave Colvin alla batteria, Chris Claridy alla chitarra elettrica e Austin Trip alla slide guitar, elemento distintivo di quasi tutti i brani in scaletta.
A caratterizzare il sound, è soprattutto la voce profonda e volitiva di Cody, una sorta di marchio di fabbrica capace di ben adattarsi a diversi registri, dai momenti più grintosi alle ballate segnate da un mood malinconico. Apre le danze il riff elettrico di Holy Water, mid tempo potente, appena stemperato dal suono della slide e un sottofondo di un coro dagli accenti gospel che emerge nel finale.
Il disco si mantiene a livelli alti anche con la successiva Must be The Whiskey, country rock in cui il piano elettrico introduce a una centratissima melodia, e in Somewhere Between I Love You And I’m Leavin, struggente ballatone acustico, caratterizzato dal perfetto interplay fra piano, chitarra, slide e violoncello. Se in qualche momento il songwriting si fa ovvio, come avviene nella piacevole ma prevedibile Colorado, Jinks dimostra però di avere una marcia in più anche quando accende le polveri, come nel rock’n’roll alticcio della trascinante Big Last Name o nell’outlaw country in purezza di Can’t Quit Enough, o quando sposta gli accenti della narrazione, come avviene in Desert Wind, western song dalle atmosfere livide, o nella splendida e nostalgica Head Case, ballata che avrebbero potuto scrivere i The National se si dedicassero al genere Americana.
Un disco riuscito, sia per intensità interpretativa che per qualità di scrittura, che farà la gioia di chi già segue con interesse artisti del calibro di Chris Stapleton o Jake Smith, alias White Buffalo, con cui Cody Jinks ha più di un punto di contatto.