“The Chief”, il soprannome mutuato dal suo album più famoso, con cui Eric Church viene chiamato dai fan, è uno che vende tantissimo e che si piazza sempre in cima alle classifiche di genere (country) e non solo. Non è quindi un caso che Desperate Man, a circa due mesi dalla sua pubblicazione, abbia raggiunto per la quinta volta in carriera la top ten di Billboard 200 (quinta posizione) e si sia aggiudicato la prima piazza delle country charts.
Church, si sa, è uno che veste la propria musica di mainstream e azzecca singoli di facile presa che intasano i canali radiofonici statunitensi (si pensi alla super hit Springsteen, omaggio esplicito alla sua principale fonte di ispirazione). Ciò nonostante, si è sempre tenuto distante da certi indigeribili stereotipi nashvilliani, e la sua musica, per quanto fruibile ai più, non è mai suonata artefatta, suggerendo semmai quella genuinità che il personaggio, umile, cordiale e alla mano, ha sempre dimostrato a dispetto del grande successo.
Eric, poi, non è uno che si adagia sugli allori e continua a ripetere una formula vincente ma frusta: il suo ultimo Mr. Misundarstood (2015), ad esempio, sfoderava un piglio southern funk e un songwriting virato verso la black music a dir poco inaspettati.
Ecco, allora, che Desperate Man segna un ulteriore spostamento di prospettiva, rielabora in modo mai così scarno i contenuti dei dischi precedenti, e si sofferma a riflettere sulla caducità dell’uomo e sulle oscure trame del destino. Lo spunto, da cui nasce il disco, è infatti un terribile fatto di cronaca. Probabilmente molti di voi si ricorderanno cosa successe il primo ottobre del 2017 a Las Vegas: durante il Route 91 Festival, il sessantaquattrenne Stephen Paddock, ha aperto il fuoco con armi automatiche da una camera dell'hotel Mandalay Bay, sparando sulla folla del concerto, causando 58 vittime e ferendo altri 500 spettatori. Un episodio che toccò profondamente il cuore di Church, tanto che tre giorni dopo quell’evento, pubblicò Why Not Me, struggente omaggio a Sonny Melton, una delle vittime dell’eccidio, che si era recato a Las Vegas proprio per ascoltare il suo idolo Eric Church.
Quella canzone, così commossa e credibile, è stata l’abbrivio per arrivare a Desperate Man, che fin dal titolo, esplicito e senza filtri, racconta chiaramente come si sia sentita l’America di fronte a un evento tanto esiziale per il paese e la musica country. Sul disco, però, Why Not Me non compare, né si accenna in alcun modo a quei fatti di sangue: Church non è solo una delle figure più amate dagli appassionati di country, ma è anche un hombre vertical, che non si sarebbe mai permessa di sfruttare un evento così emotivamente sconvolgente per implementare le vendite del proprio lavoro. Nello stesso modo, Eric tace su un altro fatto che gli ha sconvolto la vita, e cioè la morte del fratello Brandon, deceduto qualche giorno dopo la registrazione del disco.
Eppure, nonostante non faccia cenno a nessuno dei due eventi, Desperate Man è un disco che tracima di emozioni e sensibilità, che guarda in faccia alla vita e ai drammi dell’esistenza, che riflette sul fatto che spesso il vero nemico dell’uomo si annida proprio nella sua testa (Monsters). La veracità di Church è in grado di rendere universali riflessioni intime e private, e di trasmettere credibilità anche quando affronta temi politici, come avviene nella conclusiva Drowning Man, graffiante e sincera presa di posizione su un paese alla deriva, in cui lo Zio Sam ha voltato le spalle a Lady Liberty, o nel blues cupo dell’iniziale The Snake, il serpente come simbolo di uno Stato che ghermisce senza pietà i più deboli.
E’ un disco asciutto, Desperate Man, attraverso il quale Church propone il piatto forte della casa (le ballate col cuore in mano, come la dolcissima Some Of It, o l’agrodolce Hippie Radio), ribadisce il mood del suo lavoro precedente (l’incandescente r’n’b di Hangin’ Around), gioca con le citazione (la title track ruba smaccatamente il groove di Sympathy For The Devil degli Stones, Solid si apre con sensazioni pinkfloydiane) e imbraccia la chitarra elettrica per canzoni mai così ispide e sentite (la citata Drowning Man e Higher Wire).
Suona strano dirlo di un artista che in patria è considerato una sorta di eroe nazionale e che ha venduto milioni di dischi, ma Church, disco dopo disco, sta acquisendo quella maturità e quella autorevolezza che, nonostante le hit e gli stadi pieni, all’inizio di carriera erano mancate. Desperate Man è di sicuro l’album più spigoloso di Church, ma in qualche modo anche il più sentito e denso di emozioni. Un disco che sembra un piccolo disco, ma che in realtà è destinato a restare nel tempo e ad essere considerato la vetta artistica del songwriter originario di Granite Falls.