Non è vero che il Rock è morto, come ciclicamente si sente dire da almeno vent’anni a questa parte. A livello mainstream, è semplicemente annoiato. La prova provata è Delta, il quarto album del collettivo londinese Mumford & Sons, dal titolo evocativo, che ingannevolmente porta a pensare al Mississippi, luogo natale del Blues, alla potenza e al dolore scaturiti dalla musica che proviene da quella regione della Louisiana, ed invece si riferisce, molto più prosaicamente, al numero 4 e alla corrispettiva lettera dell’alfabeto greco, con un sound che è quanto di più europeo ci si possa immaginare.
Dopo la consacrazione avvenuta con Babel, vincitore del Grammy per l’album dell’anno 2013, Marcus Mumford, Ben Lovett, Winston Marshall e Ted Dawne avevano visto moltiplicarsi a dismisura gli imitatori, dal momento che per un paio di anni la gran parte delle band Pop/Rock non avevano fatto altro che imitare il loro sound, fatto di banjo, chitarre acustiche, contrabbasso e un’aria da festa a metà strada tra il mercoledì sera universitario e il raduno di boy-scout. Ovvio, quindi, che Marcus & Co. si siano a un certo punto sentiti stretti nei loro gilet e abbiano deciso di cambiare formula alla loro proposta musicale. Quindi fuori Markus Dravs, architetto sonoro di Sigh No More e Babel e produttore di fiducia degli Arcade Fire, e dentro James Ford, collaboratore storico degli Arctic Monkeys, e Aaron Dessner dei The National, per un album, Wilder Mind, che, nella sua essenza elettrica, doveva segnare una cesura. Presentato come un nuovo Achtung Baby, Wilder Mind, è stata un’occasione persa, dal momento che l’aver negato alla band l’unica particolarità che aveva – l’utilizzo degli strumenti acustici –, ha fatto diventare i Mumford & Sons degli imitatori a loro volta, uno strano ibrido tra i Kings of Leon, i Coldplay e gli U2.
Affidarsi a Paul Epworth – 5 Grammy in bacheca e un curriculum che può vantare nomi come Adele, Coldplay, U2 e Paul McCartney – per realizzare Delta non ha portato i Mumford & Sons a cambiare ancora una volta sonorità (relegando l’Afro Pop dell’EP Johannesburg a una mera parentesi), anzi, i quattro amici continuano ad approfondire il loro rapporto con l’Adult Album Alternative, seppellendo chitarre, basso e batteria in una sorta di gelatina sonora fatta da layer di tastiere che ricordano i Coldplay di X&Y e i R.E.M. stanchi di Around the Sun. Il che è un peccato, dal momento che Marcus Mumford è un interprete credibile e, a livello di scrittura dei testi, pure una buona penna. Il problema è che Delta è un album estremamente lungo – 14 canzoni per un’ora abbondante di musica – e troppo uniforme a livello di sonorità e atmosfere, dove la velocità di crociera è molto bassa e lungo il percorso non c’è nessuno strappo, nessuno scossone. Tanto che, all’infuori del promettente uno-due iniziale “42” e “Guiding Light”, la cosa più interessante del disco è il recitato di “Darkness Visible”, dove Gill Landry legge un estratto del Paradiso perduto di John Milton su una base vagamente Post Rock. Per il resto, Delta non è nient’altro che una raccolta di 14 pezzi midtempo sostanzialmente interscambiabili, non brutti – alla fine dei conti l’album non è quel disastro ferroviario che da più parti si vuol far credere – ma sostanzialmente innocui. Che è la cosa peggiore che si possa dire di un album Rock.