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REVIEWSLE RECENSIONI
24/12/2018
Bruce Springsteen
Springsteen On Broadway
Scrivere di Bruce Springsteen è difficile, per almeno due motivi. Il primo è che ha una fan base (non tutti ma almeno uno zoccolo bello consistente) in confronto alla quale i talebani sono dei campioni di tolleranza ed uso della ragione.

Il secondo, ben più importante, è che per la stessa persona che scrive non è facile mettersi nella posizione giusta. Perché da un certo punto di vista, Springsteen è un artista che non si può osservare da lontano, con l’occhio critico ed anche un po’ supponente del giornalista. Springsteen è uno che si comprende solo con l’occhio innamorato, di colui che nutre una devozione pressoché incondizionata verso questo artista che è riuscito, caso quasi unico tra i suoi colleghi, a diventare un’icona mondiale a partire da una proposta musicale tutto sommato derivativa e standardizzata.

Per capirci: non è mai vero che chi è emotivamente coinvolto conosce meglio e a maggior ragione non è vero nel caso suo.

Mi pareva giusto fare questa premessa perché io dell’artista del New Jersey ho scritto moltissimo negli anni ma mai come ora mi sento sotto tiro ed avverto questo sottile ma inesorabile bisogno di giustificarmi. Non lo ascolto più come un tempo, il senso di venerazione si è in qualche modo assottigliato, l’allargamento di orizzonti a cui sono andato incontro ha riequilibrato certe prospettive e ha messo le cose nella giusta dimensione. Per cui ok Bruce, per carità, ma non ci sei solo tu, fattene una ragione.

L’operazione “Springsteen on Broadway” arriva in un momento della sua carriera in cui i punti interrogativi cominciavano ad affiorare anche da parte dei fan più oltranzisti. La mancanza di un vero e proprio disco di inediti dal 2012 (perché “High Hopes”, con tutta la buona volontà, è stata una cosa diversa), i cofanetti retrospettivi di “The River”, i tour con la E Street Band sempre più frequenti, sempre negli stadi e sempre più autocelebrativi; mancava qualcosa che creasse nuovi stimoli, che ce lo mostrasse in una prospettiva diversa. Con questo spettacolo un po’ è accaduto: vero, non si tratta di roba inedita e, vero altrettanto, l’occasione l’ha data l’ennesimo progetto-marketing, anche se questa volta di natura editoriale (l’autobiografia “Born To Run”, uscita a fine 2016), però è indubbio che, se c’era qualcuno che si fosse nel frattempo stancato di vederlo recitare la parte del Juke Box umano e di far cantare i bambini, questa volta avrebbe potuto trovare motivi di soddisfazione.

Iniziato nell’ottobre scorso, prolungato di volta in volta a seguito delle continue richieste, “Springsteen on Broadway” si è snodato fino a pochi giorni fa, per un totale di 236 repliche. Tutte all’interno del Walter Kerr Theater, capienza meno di mille posti, tutte rigorosamente sold out, con biglietti a cifre astronomiche, sia sui canali ufficiali che in quelli di bagarinaggio legalizzato (c’era però un settore popolare che si aggirava tra i 70 e i 90 dollari). Abbiamo seguito sui social l’epopea dei fan italiani che hanno fatto di tutto per accaparrarsi un ingresso, tra la rabbia di chi non ci è riuscito e l’estasi di chi invece a New York ci è andato per davvero ma non abbiamo mai davvero guardato e ascoltato nulla, nonostante dai commenti dei presenti qualcosa trapelasse e nonostante una registrazione bootleg dello spettacolo fosse disponibile in rete già poche settimane dopo l’inizio.

Oggi finalmente, anch’io che non ci sarei andato neppure per sbaglio (e non è invidia, giuro) posso fornire la mia non richiesta opinione.

Comincio col dire che la versione in doppio cd o quadruplo vinile in circolazione in questi giorni, per noi italiani non ha nessun senso. Su due ore e mezzo di durata complessiva, la parte dedicata alle canzoni (16 in tutto, dato che sono state inserite tutte quelle suonate nel corso di tutte le repliche, che hanno visto microscopici cambi di setlist) dura poco più di sessanta minuti. Il resto è occupato da monologhi, pronunciati in un inglese decisamente impegnativo, praticamente impossibile da cogliere nella sua interezza senza essere più che ferrati con la lingua. E non è certo il caso del nostro paese, lo sappiamo bene. Di conseguenza, il modo migliore per fruire di questo prodotto è guardarsi il video, che per il momento vuol dire abbonarsi a Netflix (o comunque usufruire del mese gratuito). In questa versione, il tutto risulta più scorrevole: al di là della presenza delle immagini, che risultano fondamentali proprio per cogliere la componente teatrale dello show, quel che fa la differenza è proprio la possibilità di utilizzare i sottotitoli. In questo modo si capisce davvero come ciò che Springsteen si è inventato sia un insieme omogeneo dove narrazione e musica si compenetrano a vicenda. Qualcuno ha tirato in ballo il “Teatro canzone” di Gaber: non è la stessa cosa per tanti motivi diversi ma ci si avvicina, la forma se non altro è simile.

Senza troppo eccedere negli entusiasmi, lo spettacolo è buono, a tratti anche ottimo. Che Bruce Springsteen sia da tempo arrivato ad un livello notevole di auto analisi e di consapevolezza di sé, non è una novità: negli anni ci ha dato diverse dimostrazioni di maturità, ha fatto uscite non proprio in linea col profilo della rockstar canonica, mostrando un’attenzione non comune a tutti gli aspetti della realtà.

In questa occasione non fa nient’altro che darne conferma: l’ora e mezza dei monologhi è semplicemente una summa di tutto ciò che ha detto e scritto nel corso degli anni. L’impianto di base è la sua autobiografia (di cui vengono letti alcuni estratti) per cui era lecito aspettarsi poche vere novità. C’è un ordine cronologico, si parla dell’infanzia e della giovinezza tra Freehold ed Asbury Park, del rapporto coi genitori, dei primissimi approcci con la chitarra e col Rock and Roll in generale, di come abbia avuto da subito un’idea chiara di chi voleva essere, della difficoltà di crescere in un posto non esattamente centrale nella storia culturale degli Stati Uniti, dell’incontro, ancora adolescente, con due fratelli, membri della stessa band, sorta di idoli locali del New Jersey, prematuramente morti in Vietnam. E da qui, l’inizio del suo rapporto con l’associazione dei veterani, anche a seguito dell’incontro fortuito con Ron Kovak, di cui aveva già letto il celebre “Nato il 4 luglio”. È un dipanarsi a volte evocativo, altre più prosaicamente aneddotico e non privo di momenti di ironia, uno svolgere il filo della vita con serenità ed un po’ di malinconia, sempre comunque con il giudizio chiaro che tutto ciò che è stato vissuto lo ha in un modo o nell’altro fatto arrivare lì dove è ora; la certezza che essere una rockstar passa anche (e soprattutto) dall’essere una persona normale e che l’aver capito questo punto gli ha permesso di resistere così tanto sulla cresta dell’onda.

Sapevamo già molte cose, perché lui è uno che durante i concerti ha sempre parlato molto, che non ha mai centellinato le interviste, uno che ha sempre avuto questa urgenza di raccontarsi. Eppure, nulla poteva prepararci al momento in cui rievoca quel giorno in cui, poco prima della nascita del suo primo figlio, riceve la visita di suo padre (con cui, lo sanno tutti, non ci sono mai stati grandi rapporti) e ne viene fuori una delle scene più intense e commoventi di tutto il plot. Oppure il finale, quando, con una mossa a dir poco spiazzante, in un’epoca storica in cui le religioni sembrano essere state bandite dallo spazio pubblico, recita il “Padre nostro” dicendo che quelle parole, imparate a memoria da bambino, quando andava a scuola dalle suore, acquistano ora un senso e paiono il modo migliore per tenere insieme i vivi e i morti, gli amici che non ci sono più (da questo punto di vista è immancabile il tributo a Clarence Clemons, omaggiato prima di “Tenth Avenue Freeze-Out”), i ricordi, i rimpianti, le gioie, i dolori e tutto quello che ancora resta da vivere.

Diciamocela tutta: vale la pena vederselo solo per ascoltare queste cose qui. Le canzoni, concedetemelo per una volta, sono un mero intermezzo tra un racconto e l’altro, un pretesto per la singola storia che è appena stata narrata. Anche perché sono sempre le stesse e sono le più famose, quelle che abbiamo sentito centinaia di migliaia di volte. Si pensava, quando il progetto era appena stato annunciato, che avrebbe suonato cose diverse ogni sera, rispolverando se possibile chicche quasi mai sentite. Nel momento in cui ci si è accorti che non sarebbe stato così, abbiamo perso ogni interesse per questa porzione dello show. Che poi ci sta anche, per carità: come performer in veste acustica è sempre stato eccezionale e certe cose sono da brividi. “My Hometown” piano e voce è probabilmente la sua più bella versione di sempre, scura e dimessa, intrisa di malinconia, molto di più delle (numerose) rese acustiche del passato. Niente male anche “My Father’s House”, perla da “Nebraska” raramente eseguita dal vivo, effettivamente si sentiva la mancanza di una versione live ufficiale. La stessa cosa si può dire per “The Wish”, dedicata invece alla madre, che è un’outtake originariamente pubblicata su “Tracks” e che pur non essendo presente nella sua miglior resa di sempre (ne ho sentite altre su bootleg che erano decisamente meglio) è comunque bello che ci sia.

Notevole anche “Long Time Comin’”, presente qui ma eseguita solo in alcune repliche, mentre le versioni di “The Rising”, “Growin’ Up”, “Born to Run”, “Land of Hope and Dreams”, sono piuttosto scolastiche e nulla aggiungono alle centinaia di ore di registrazione di cui siamo in possesso dall’alba dei tempi.

Al di là di tutto, un’uscita del genere risulta importante, almeno dal punto di vista documentaristico: fissa una volta per tutte una fase particolare della carriera di Springsteen, preparando forse il terreno per le sue mosse future. A proposito di questo, consentitemi una riflessione: ho sempre sostenuto che la sua più grande qualità fosse quella di essere sempre riuscito a venire a patti con la sua età biologica, sapendo invecchiare assieme al suo personaggio, senza dare mai l’impressione di essere qualcosa che non è. È riuscito ad arrivare alle soglie dei settant’anni senza sembrare ridicolo nel recitare la parte del rocker, proprio perché ha raggiunto un grado di accettazione di sé che non è affatto scontato, quando si fa questo mestiere. Proprio per questo (verrò fucilato senza processo ma pazienza), non ce lo vedo, nei prossimi anni, ad infiammare ancora gli stadi con la E Street Band. Già l’ultimo tour aveva mostrato segni di stanca ma non è quello il punto: è che forse è arrivato il momento in cui bisogna fare altre cose, gestire la voce in altro modo, agitarsi di meno sul palco, esplorare altre declinazioni della propria musica. Da tempo ci sarebbe un disco per così dire “solista”, allestito senza la band ed ispirato a sonorità maggiormente cantautorali. La fine di questa residence a Broadway potrebbe anche rappresentare il punto di partenza per una nuova avventura. Vedremo che succederà. Nel frattempo, godiamoci questa nuova uscita, ideale regalo di Natale, e ringraziamo Bruce Springsteen perché, in un modo o nell’altro, sa sempre trovare la via per arrivare al nostro cuore.