In ogni caso il mio “più grande” ovviamente non significa “esposizione” e “sequela”: Drake, Mars, Grande, West, Beyonce, Malone, Cara, Harris e via dicendo hanno una fan-base con numeri inavvicinabili per Blake e probabilmente per il 90% degli altri artisti in attività. Eppure anche questi ultimi sono in qualche modo debitori a James: non si tratta di formule musicali, approccio artistico o mood produttivo, è l’essenza del “Blake’s sound (world)” ad essere punto di riferimento e paragone per chiunque in questi anni voglia confrontarsi seriamente e concretamente con la musica contemporanea. Forse solo Kendrick Lamar e i The xx potrebbero intromettersi in questo mio ragionamento ma per altre ragioni che, se vorrete, approfondiremo in un’altra occasione.
Il giovane compositore/musicista/dj/produttore londinese è uno di quelli che ha cambiato le cose silenziosamente, quasi in punta di piedi, senza far clamore e non suscitando praticamente invidie; il pop ha assunto insieme a lui connotazioni che, pur essendo per un certo verso precedenti alla sua discesa in campo, dopo sono diventate in maniera naturale il suo marchio di fabbrica: lo spleen sensoriale ed emotivo, il vuoto molto più del pieno, i battiti (del cuore) rallentati quasi all’eccesso, le frequenze digitali che vorrebbero rivaleggiare con il pianoforte uscendone quasi sempre sconfitte, le voci che arrangiate, innalzate e scagliate tra le stelle non sono mai sembrate cosi fragili eppur così perfette. Che “tratti” hip hop, r&b, soul, easy listening, edm o cantautorato, Blake è uno quei rari artisti che non fa fuoriuscire l’anima per creare la sua musica, ma al contrario immagina e realizza una differente idea di musica per ridestare proprio l’anima degli ascoltatori. Osservare e plasmare la realtà in brevi sinfonie per scovare l’infinita bellezza della sua anima e di tutti quelli disposti ad ascoltarlo.
A che punto siamo però ora alla quarta fatica in studio? Al numero di uscita discografica che in moltissimi casi, proprio tra i più grandi, ha (ri)definito il futuro delle loro carriere? “Assume Form” è un album meraviglioso per quanto mi riguarda, l’ennesima prova del talento misterioso e sconfinato di Blake. Certo, come qualcuno sta facendo notare, è un disco più assimilabile e interpretabile per il pubblico cosiddetto mainstream, con alcuni brani che non sfigureranno in qualsiasi programmazione radio, tv e web; ma niente è andato perso dell’approccio unico e stupefacente di James alla materia strettamente compositiva/musicale e immaginifica.
L’inizio è con quella Assume Form che, per essere adeguata al fardello di essere anche il titolo dell’intero lavoro, fa riaffiorare immediatamente tutte le certezze a cui l’autore ci ha da sempre abituati (canto angelico su una elegia pianistica e sequenze ritmiche/vocali supportate da rare incursioni di archi) tra intimità e brillantezza; Miles High, primo featuring di Metro Boomin e unico di Travis Scott, è l’esca trap personalizzata dal passo felpato a cui è impossibile non abboccare, mentre Tell Them, secondo feat. di Boomin in collaborazione questa volta dell’efficacissimo Moses Sumney, è l’altra faccia della medaglia di matrice mediorientale filtrata dubstep da cui lasciarsi ammantare e circuire.
Con Into The Red torna sugli allori in solitudine Blake, regalandoci una delle sue canzoni migliori di sempre dall’andamento minimal/orchestrale e una vocalità talmente carezzevole da desiderare che non finisse mai; non contento di tale e tanta bellezza appena conclusasi ecco la strepitosa Barefoot In The Park, una ballad sintetica, confezionata al millimetro per la giovanissima e splendida cantante spagnola Rosalía, da empireo della pop-music (per chi non l’avesse ancora fatto consiglio l’ascolto dell’incredibile “El Mal Querer” di Rosalía, per il sottoscritto miglior album del 2018).
Can't Believe the Way We Flow è formalmente un soul imbrigliato in un loop liquido e magnetico mentre in Are You In Love? riecheggiano le fattezze dell’etereo e ipnotico James Blake degli esordi, tra schizzi di synth e criptica autoanalisi. Non poteva ovviamente mancare il colpo hip hop grazie al maestro André 3000 che si insinua con geometria invidiabile su Where’s The Catch?, r&b elegantemente pressato da confini deep-house. Applausi a scena aperta.
Blake in dirittura d’arrivo decide di stupirci ulteriormente con la doppietta I’ll Come Too e Power On: un Burt Bacharach sezionato e riadattato all’orecchio di un giovane/adulto del 2019 tra squisitezze melodiche, orchestrazioni contenute, campionamenti ambientali e glitch improvvisi.
Infine, anche il brano anticipatore dell’album di qualche mese addietro fa la sua comparsa: Don’t Miss It, ennesimo apice di “Assume Form”, ancora una volta ricorda a tutti perché non c’è veramente nessuno che come James Blake riesca a creare dei micro universi in cui perdersi per qualche minuto, senza aver quasi niente a cui aggrapparsi eppure sentendosi totalmente appagati e sicuri dalla misteriosa straordinarietà della musica. L’epilogo del lavoro invece è compito di Lullaby For My Insomniac, che obbliga l’ascoltatore a una perfetta solitudine e all’abbandono di mente, cuore e corpo per raggiungere finalmente una pacificazione (reale o fittizia?) sensoriale in un semplice coro da messa laica. Da brividi.
Dicevo che James è il più grande di tutti. In questi strani e sofferenti tempi. Che con lui sono forse un po’ più strani ma decisamente molto meno sofferenti. Non saprei fargli complimento appunto “più grande”.