Un po’ di cautela occorre pur sempre averla ma credo che adesso si possa dire in maniera più decisa: siamo di fronte ad un nuovo trend musicale. Oddio, di nuovo c’è ben poco, visto che si tratta di un ritorno vecchia scuola delle chitarre, principale strumento di un’aggressività che si muove a metà strada tra Punk e Post Punk. Portare avanti un discorso nuovo, ancorandosi fedelmente ai dettami del passato può sembrare una contraddizione ma ormai, a nuovo Millennio inoltrato, questo è quello che si fa per la maggior parte e non credo sia il caso di lamentarsi.
I Murder Capital sono semplicemente gli ultimi arrivati di una nuova ondata di gruppi che sta riportando in auge sonorità mai veramente passate di moda, con una freschezza ed un entusiasmo per cui pressoché ovunque, senza pudore, si grida al miracolo. Shame, IDLES, Sleaford Mods, Fontaines DC, in parte anche Housewives, sono solo gli esempi principali di act che stanno a ragione sulla bocca di tutti, parte di un fenomeno che ormai non si può più evitare di guardare.
Regno Unito e Irlanda sembrano essere i centri geografici di questa rinascita, un linguaggio espressivo che ha anche incorporato a piene mani i temi politici, approfittando del fatto che, tra Brexit, Trump e quant’altro, le vicende del mondo stanno offrendo materiale copioso ad un genere che non è mai stato scevro da queste preoccupazioni.
I Murder Capital sono gli ultimi arrivati in questo giro e anche loro, come quei Fontaines DC di cui vi abbiamo parlato qualche mese fa, provengono da Dublino. Un paese, l’Irlanda, che prima di loro ha visto esordire anche i Girls Names (che per la cronaca, però provenivano da Belfast), forse un po’ meno fortunati dal punto di vista dei numeri ma importanti per indicare la direzione. Dublino, molto di più della Bristol degli IDLES, sembra essere divenuta negli ultimi tempi il fulcro pulsante di quella che, probabilmente questa volta senza azzardo, potremmo definire “scena”. D’altronde, una città che è schizzata rapidamente ai primissimi posti per quanto riguarda il costo degli alloggi, un posto dove la gentrificazione si sta allargando a dismisura, mietendo nuove vittime ed allargando sempre di più quel divario sociale che costituisce per questi gruppi un forte serbatoio di temi.
In realtà i Murder Capital hanno poco a che fare con la politica e, pur avendo ben presente la difficile situazione del luogo in cui vivono, nei loro testi preferiscono concentrarsi sulla dimensione esistenziale. Lo si vede già dalla copertina, sorta di scultura che ricorda Magritte e che ci parla di una difficoltà o addirittura di un’assenza di relazioni. Ancora di più il titolo, ispirato ad un sonetto di John Keats (riferimento indispensabile anche dei loro amici Fontaines DC, con i quali hanno in comune peraltro la passione per la letteratura) e che, nelle parole del cantante James McGovern, esprime quella paura che non basti una vita per riuscire a comunicare tutto quello che si ha dentro di sé.
Non pare tuttavia che questi cinque ragazzi (sono il cantante James McGovern, il batterista Diarmuid Brennan, i chitarristi Damien Tuit e Cathal Roper e il bassista Gabriel Paschal Blake) abbiano ragione di preoccuparsene: questa loro opera prima è già una sfolgorante dimostrazione di talento, dove il richiamo ai Joy Division ed in generale alla vena oscura di un certo Post Punk è più presente che mai (basta ascoltare un brano come “Green & Blue”) ma dove non siamo mai di fronte ad una mera scopiazzatura.
Quello che colpisce, così come nel caso dei loro già citati concittadini, è la personalità, la sicurezza con cui aggrediscono le canzoni, il pulsare ossessivo della sezione ritmica a tenere su l’impalcatura del brano, il graffiare delle chitarre, una voce che sta a metà tra Ian Curtis e Mark E. Smith ma, perdonate l’azzardo, sembra tecnicamente più padrona dei propri mezzi.
Tutto questo va a produrre un’opera prima che è un miracolo di perfezione e di equilibrio, soprattutto se si pensa che è solo un anno che esistono come collettivo. Un disco dalla doppia anima, che oscilla tra aggressioni frontali dalla forza irresistibile, come “More Is Less” “Feeling Fades” o la pazzesca “Don’t Cling to Life”, ma che vive anche di un lato più oscuro e tremendamente rallentato, che siano i fraseggi chitarristici delle due parti di “Slow Dance”, lungo e ripetitivo, che sfrutta un ottimo crescendo, o le due quasi ballate, “On Twisted Ground” e “How the Streets Adore Me Now”, scarne nella costruzione e che si muovono con l’incedere di una marcia funebre.
Non c’è una nota fuori posto, in questi 44 minuti e proprio per questo suo carattere variegato, ci sentiamo di dichiarare “When I Have Fears” un mezzo gradino sopra rispetto a “Dogrel” dei Fontaines DC, a “Songs of Praise” degli Shame e addirittura a “Brutalism” degli IDLES, vale a dire tre degli album più acclamati del biennio ’18-’19.
“La gente ci amerà o ci odierà” ha detto James McGovern in un’intervista recente, consapevole del fatto che, sempre nelle sue parole, “tutta la grande arte è divisiva”. E i Murder Capital sono esattamente così: sfrontati, diretti, per niente piacevoli nel loro modo di porsi ma in tutto questo non ci pare di ravvedere nulla di costruito, anzi.
“Non so quanto serio possa essere sul palco, c’è una sorta di leggerezza in questo ma anche un certo lato psicotico. È semplicemente un altro modo di esprimermi, un altro lato della mia personalità. La società mi dà questi 45 minuti al giorno e io me li prendo, cazzo!”. C’è sempre più bisogno di gruppi così, per rispondere a gente che si ostina a sostenere che è dal 1979 che non esce nulla di interessante. Assurdo dire che siano i nuovi Clash. Un po’ meno, sostenere che qui dentro non ci sia una voce che deve essere ascoltata.