Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
16/09/2020
Motorpsycho
The All Is One
C’è un non so che di strano nell’avere tra le mani un nuovo disco dei Motorpsycho e nel non sapere con certezza se, in un futuro prossimo o lontano, avremo la possibilità di sentire dal vivo queste canzoni.

Al di là della prolificità assoluta in studio (a che numero di album siamo arrivati? Probabilmente è il ventesimo, senza contare gli Ep e le collaborazioni varie), ciò che ha sempre caratterizzato l’ormai duo di Trondheim è l’instancabile attività live, portata avanti praticamente in modo ininterrotto, come ben sa anche il nostro paese, che li vede passare quasi ogni anno e sempre per più date di fila. D’altronde questi sono i tempi che stiamo vivendo e occorrerà dunque abituarsi a considerare le nuove uscite senza per forza tenere conto della parallela dimensione live.

“The All Is One” arriva ad un anno e mezzo da “The Crucible” (che era stato considerato un Ep solo per gli standard della band, perché poi di fatto durava 45 minuti) e costituisce l’ultima parte della cosiddetta “Gullvåg Trilogy”, chiamata così da Håkon Gullvåg, che ne ha disegnato le copertine. Siamo nuovamente al cospetto di un doppio, anche se in questo caso la durata del singolo cd è stata superata solo di pochi minuti.

Superate le formalità di rito, è sempre difficile entrare nel merito di un nuovo disco dei norvegesi. Bent Sæther e Hans Magnus Ryan hanno smesso da tempo (almeno dalla fuoriuscita di Håkon Gebhardt, nel 2005) di sperimentare e di preoccuparsi di mutare spesso le coordinate stilistiche, per attestarsi su una formula costante ma priva di vere e proprie flessioni qualitative.

Il nuovo capitolo non fa eccezione: l’unica differenza è che a questo giro i due (affiancati alla batteria da Tomas Järmyr, che li segue anche dal vivo) hanno abbandonato le chitarre distorte e le massicce ritmiche d’impianto Stoner, per concentrarsi maggiormente su sonorità Seventies, a metà tra il Folk e il Progressive Rock. Ne consegue un lavoro dall’impronta più morbida, con le chitarre acustiche maggiormente preponderanti e canzoni in generale più lente, un disco nel complesso meno influenzato dall’Heavy Metal rispetto ai due precedenti.

È sempre la solita roba, certo, e la sensazione di Déjà vu si presenta potentissima sin dalle prime note della title track, che è anche quella che permette di inquadrare meglio le principali caratteristiche dell’album. Detto questo, resta che poche band come questa sanno essere così ispirate ad ogni giro: le melodie sono sempre quelle, gli accorgimenti stilistici e le caratteristiche strutturali idem, eppure è difficile trattenere l’emozione in episodi come “The Same Old Rock”, “Like Chrome” (due pezzi che richiamano fortemente la scrittura che la band aveva in dischi come “Let Them Eat Cake” o “It’s A Love Cult”) e soprattutto la splendida cavalcata di “The Magpie”, che alla fine potrebbe anche risultare una delle loro più belle canzoni negli anni Duemila.

La vera novità riguarda comunque “N.O.X.”, monumentale composizione da 42 minuti, suddivisa in cinque movimenti e spezzata nell’arco dei due cd (da questo punto di vista, molto meglio l’ascolto in digitale) che costituisce il vero e proprio fulcro di “The All Is One”. Presentato in anteprima alla scorsa edizione del Saint Olav Festival di Trondheim, questo brano, che la band ha definito “Una piece per balletto ispirata alla pittura, all’alchemia e alla divinazione”, si avvale della collaborazione di alcuni componenti dei Jaga Jazzist e degli Steamdome, con cui il gruppo ha già lavorato in passato; musicalmente si tratta del tentativo di declinare in studio le sterminate Jam che caratterizzano da sempre le loro esibizioni dal vivo. Da questo punto di vista, bisogna ammettere che scorre benissimo: il lungo break centrale, che si dipana in pratica dalla seconda alla quarta sezione, risulta sufficientemente variato, pur nella generale atmosfera lisergica che sconfina nel Free Jazz, da permettere all’attenzione di mantenersi desta. Importante la presenza del violino di Ola Kvernberg, a creare una continua sensazione di minaccia incombente, mentre anche Mellotron e Pedal Steeel offrono un contributo importante nella tessitura ritmica e nei cambi d’atmosfera, passando dai viaggi psichedelici al sabba pagano dell’ultima parte, in un certo modo vicino agli impazzimenti generali degli Swans. Si tratta del brano più lungo mai composto dal gruppo ed è un affresco meraviglioso del loro mondo, che senza nulla mutare, riesce tuttavia a sorprendere con la sua imponente bellezza.

Bellezza che è tale da farci dimenticare qualche normale caduta di tono, avvertibile, almeno per quanto mi riguarda, soprattutto sul trittico di pezzi acustici, che pare siano messi lì per onorare un copione ormai consolidato.

Non credo ci siano dubbi nell’affermare che i Motorpsycho siano una delle più grandi band della storia del rock. “The All Is One” ne è l’ennesima conferma e poco importa che i capolavori degli anni ’90 siano lontani: rimanere sulla scena per così tanti anni con questa qualità e con questa lucidità di visione, non è cosa da tutti. Poi ovviamente aspettiamo i concerti, perché un gruppo come il loro va visto dal vivo, non c’è nessun compromesso possibile.


TAGS: loudd | lucafranceschini | Motorpsycho | recensione | review | TheAllIsOne