“E’ difficile, vivendo la propria esistenza a colori, raccontare la verità in bianco e nero.”
Gregg Allman
Durante la loro carriera i Midnight Oil hanno costantemente provato a vivere la forte contrapposizione tra “noi” e “loro”. “Noi”, come gruppo australiano a favore dell’ambiente, in difesa della minoranza aborigena, contro il consumismo e la guerra, “Loro” come i poteri forti, la politica speculativa, la politica dei più ricchi contro i poveri, gli sfruttatori di persone e risorse, i trivellatori senza scrupoli dell’Alaska e pure lo stesso sistema mediatico musicale tradizionale, tutti sempre pronti a ragionare solo per il profitto, calpestando i diritti umani. Si è trattato di una battaglia ardua, è sempre difficile, a volte impossibile capire chi abbia completamente torto e chi completamente ragione, come diceva il compianto Gregg Allman, ma, nel loro caso, ne è valsa la pena per dare un segnale al mondo e mantenere l’integrità.
L’episodio cruciale che rappresenta appieno questa band, recentemente riunitasi dopo lo scioglimento del 2002, è l’iconico Diesel and Dust, dalla copertina “desertica” ed enigmatica, molto correlata al titolo. Pubblicato nel 1987, è il sesto capitolo degli “Oils”, che, dall’esordio omonimo di nove anni prima, hanno raggiunto una moderata fama anche al di fuori del Paese, celebre per avere dato i natali ad altri gruppi top come i Birthday Party, gli Inxs, i Men At Work, i Go-Betweens e i Crowded House, senza scordare i mitici AC/DC e i Bee Gees.
Le undici tracce del disco attraversano con attitudine post punk un sentiero rock a tratti hard, permettendosi incursioni nel territorio new wave e non disdegnando la ricerca della melodia in ballate che strizzano l’occhio pure alla musica aborigena.
L’iniziale Beds Are Burning rimane il loro pezzo più famoso, caratterizzato dall’intro simil heavy che subito sboccia in una trama blues dal ritmo accelerato. Il cantato ruvido e passionale del leader Peter Garrett, che, di primo acchito, potrebbe sembrare assimilabile a quello di un Mick Jagger in brutta copia, prende il sopravvento e dimostra invece la sua originalità, fino alla svolta orecchiabile del ritornello. E se la canzone acquisisce una piega tutto sommato allegrotta nel coro del refrain, diversamente il testo è un pesante atto d’accusa, ma l’intenzione del gruppo è pure di glorificare l’incredibile energia e voglia di vivere degli indigeni. Viene ricordato l’ingiusto maltrattamento subito dalle popolazioni native, praticamente ghettizzate in alcune “riserve”, costrette dagli europei ad abbandonare le loro terre d’origine, e si chiede la restituzione del maltolto ai legittimi proprietari. Nello stesso tempo, però, si esalta l’innata spiritualità e forza atavica di queste persone. Un popolo che lancia il proprio grido di dolore, ma, nonostante le strazianti difficoltà, non si lascia distruggere, conservando la propria interezza, vivendo e danzando libero nel deserto.
“…The time has come
a fact's a fact
it belongs to them
let's give it back
how can we dance when our earth is turning
how do we sleep while our beds are burning…”
“E’ arrivato il momento, un fatto è un dato di fatto, appartiene a loro, diamogliela indietro.
Come possiamo danzare quando la nostra terra sta girando, come possiamo dormire mentre i nostri letti stanno bruciando”.
Rob Hirst, membro fondatore, batterista e autore di questo brano (insieme al già citato Garrett e all’altra colonna della band, il chitarrista nonché tastierista Jim Moginie) racconta che è stato proprio un viaggio nel deserto a ispirare il testo. Questa composizione e, per la verità, tutta l’opera, è caratterizzata dall’analisi delle vicissitudini avvenute nel territorio australiano, tanto da trovarsi vicini a un concept album. Colpisce poi il fatto che il titolo sia tristemente e curiosamente legato all’Italia, tradotto da un’espressione utilizzata dai partigiani durante la lotta contro gli uomini di Mussolini. “Come potreste pensare di dormire quando i letti bruciano?”, è una frase che l’organizzatore di una mostra sulla storia del fascismo citò proprio a Hirst, il quale ne rimase talmente impressionato da costruirci sopra una canzone.
I momenti forti in questo disco proseguono nella pirotecnica Put Down That Weapon, pilotata dal potente basso di Peter Gifford, in cui si paventa la possibile distruzione del mondo se proseguirà lo sviluppo del nucleare e si cita indirettamente Sidney come porto ospitante navi cariche di armi di quel tipo.
La tenerezza melodica della ballata Arctic World non deve trarre in inganno: si scagliano ancora parole pesanti su chi decide le sorti dello Stato e i pericoli delle attività estrattive per l’ambiente. L’anatema continua sfociando lentamente, senza interruzioni in Warakurna, altro brano di punta che inveisce contro Buckingham Palace e in cui compaiono le parole da cui prende nome il disco.
“This land must change or land must burn
Diesel and dust is what we breathe.”
“Questa terra deve cambiare o brucerà, ciò che respiriamo è gasolio e polvere”.
Warakurna è una delle più popolate comunità aborigene nella Western Australia.
L’impatto con questi angoli remoti della nazione è disarmante: in un paesaggio dalla bellezza mozzafiato, con colline color porpora sullo sfondo, spiccano queste realtà urbane che si contraddistinguono per povertà estrema, opportunità di lavoro quasi inesistenti, consumo cronico di alcol e droghe, degrado e violenza endemica, anche contro i bambini. E ancora una volta i Midnight Oil si fanno carico di queste situazioni sciorinando atmosfere e contenuti cupi, ma allo stesso tempo concentrandosi su una musica che possa dare speranza, pregna di ritmo e vita.
Sulla stessa onda viaggiano la storica The Dead Heart, primo singolo dell’album qui presente nel final mix, Whoah e Bullroarer. In quest’ultima, all’inizio, al termine e a tratti durante la canzone, riecheggia proprio il suono del bullroarer, antichissimo strumento rituale, tipico della tradizione oceanica.
Onestamente la conclusione dell’opera perde un po’ di tono dal punto di vista artistico, poiché sia Sell My Soul sia Sometimes sono chiaramente retaggio del rock anni ’80 un po’ insipido. Rimangono, comunque, una degna chiusura ed entrambe mantengono chiara l’impostazione lirica di critica e protesta.
Nell’analisi globale giova poi ricordare l’importanza della chitarra di Martin Rotsey, altro elemento originario della band, i cui ritmi e fraseggi impreziosiscono l’impatto sonoro dell’intera raccolta, così come gli affilati fiati di Glad Reed e Jeremy Smith. Beds Are Burning, ad esempio, non sarebbe più la stessa senza trombone e french horn.
La sorpresa finale rimane la traccia Gunbarrel Highway, unica del lavoro che termina sfumata, quasi a rappresentare una differenziazione con le altre. Effettivamente non comparirà in principio nella versione vinile e cassetta e nemmeno sarà presente nell’edizione CD dedicata al mercato degli Stati Uniti a causa del verso “shit falls like rain on a world that is brown”, ritenuto troppo forte e crudo per il pubblico americano.
Alcune situazioni estreme fortunatamente sono cambiate in Australia grazie anche al contributo dei Midnight Oil. Nel 2008 Il governo ha fatto ammenda e chiesto scusa ufficialmente per quanto accaduto nei secoli e gli autoctoni, pur se non ancora perfettamente integrati, hanno ricevuto attenzioni e potuto accampare i propri diritti. Sicuramente di strada da percorrere ce ne è ancora molta, e occorre una concreta riconciliazione con questa ferita del passato che non si è ancora rimarginata, e lascia purtroppo attuali ancora oggi le rivendicazioni presenti in Diesel and Dust. Rimane inestimabile l’esempio della band capitanata da Peter Garrett, il quale mai si è tirato indietro in tale battaglia, fregiandosi negli anni del titolo di presidente dell’Australian Conservation Foundation e facendo parte del consiglio internazionale di Greenpeace.
Un gruppo che ha sempre onorato la storia e il passato, anche quello della Musica come entità spirituale e forgiante: basti pensare che la scelta del proprio nome nasce da un brano iconico per gli appassionati di Jimi Hendrix, Burning of the Midnight Lamp, uno dei più personali dell’artista, da lui stesso descritto come il tentativo di spiegare la triste sensazione che si prova nell’impossibilità di poter chiamare un qualsiasi luogo la propria casa, quando ci si continua a spostare. Un tema, come si è visto, spesso ripreso dall’ensemble australiano e che ben raffigura la situazione degli aborigeni.