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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
13/12/2021
Hootie & The Blowfish
Cracked Rear View
Cracked Rear View fu un esordio col botto, che cambiò per sempre la vita di quattro ragazzi americani conosciutisi al college, gonfi di passione per la musica e il football americano. Undici canzoni, che forse si potrebbero incanalare nel filone AOR, orecchiabili, ma ben architettate, suonate e arrangiate, riescono a sfondare il muro del tempo e brillano di luce vera ancor oggi, arricchite da testi profondi e quanto mai attuali.

A volte non esistono motivazioni coerenti e plausibili per giustificare l’incredibile successo o il flop di un disco, un po’ come quando nel calcio la squadra che ha attaccato per tutti i novanta minuti, colpendo pali e traverse, perde per un autogol nel recupero. Capita nello sport, e così anche nella musica: il trionfo di vendite di un album può quindi far parte di quell’irrazionale che, aiutato dal contesto del momento e da un pizzico di fortuna, confeziona sorprese; tutto sta a vedere se, successivamente, con lo scorrere degli anni, si proveranno le stesse vibrazioni positive ascoltando le canzoni della raccolta o si sarà trattato di un godimento effimero.

Certamente Cracked Rear View fa parte della prima ipotesi, grazie a una serie di composizioni in realtà abbastanza semplici, però, a ben analizzare, con un’anima, sincere, sentite, ricche di sfaccettature e in grado di intrufolarsi dritte nel cuore, senza compromessi. Melodie con sonorità azzeccate e poi quella fantastica voce calda del frontman Darius Rucker, che sa essere forte, dolce e potente ed evocare la voglia di vivere, viaggiare, correre a perdifiato in una pianura sconfinata anche se, incredibilmente, parla spesso di morte, solitudine, razzismo, abuso di droghe, fallimenti sentimentali e sconfitte sportive. Ci sono anche momenti più allegri e leggeri, sia ben chiaro: in fondo la vita, lo stiamo vedendo tanto in questo maledetto periodo, è un caleidoscopio di emozioni e situazioni certe volte meravigliose, altre davvero brutte, e Darius sa come sussurrarci segreti, gioie e dolori al momento giusto, come un amico pronto a confidarsi e in cerca di redenzione.

Una voce così bella e difficile da catalogare che, a metà anni ottanta, colpisce profondamente il dotato chitarrista Mark Bryan, quando ascolta Rucker cantare sotto la doccia del dormitorio frequentato nel periodo in cui andavano insieme all’università di Columbia, nella Carolina del Sud. Reclutato il poderoso bassista Dean Felber e il batterista Brantley Smith, a breve sostituito dall’eclettico Jimi “Soni” Smith, l’ensemble è pronto per cominciare l’avventura e sceglie un appellativo particolare, Hootie & The Blowfish, utilizzando i soprannomi di due compagni del college.

Il tempo passa veloce tra demo e un EP, siamo ormai nel 1993, che cattura l’interesse di Tim Sommer, produttore discografico a quell’epoca in forza ad Atlantic Records. Un uomo con la passione maniacale per la musica, tanto da esser stato anche giornalista specializzato e in seguito veejay per MTV, oltre che membro fondatore degli Hugo Largo, brillante band di avant-rock a contatto con Michael Stipe.

Sommer subito stravede per loro, a differenza dei rappresentanti di diverse etichette, freddi nei confronti del gruppo per il suo discostamento dalla moda grunge del periodo, e la firma per la sua major produce il debutto mainstream Cracked Rear View, pubblicato a Luglio ’94. Nel giro di un anno avviene la consacrazione, e il disco rimane tuttora al diciannovesimo posto assoluto per numero di vendite negli Stati Uniti. E qui torniamo all’inizio del nostro discorso: quali sono gli ingredienti che hanno consentito una tale popolarità? Sicuramente le canzoni, abbiamo detto, e probabilmente quella rigogliosa attitudine da soft rockers di alto rango che per giunta ha spianato la strada a band già in circolo o di nuova formazione come Goo Goo Dolls, Matchbox Twenty e Third Eye Blind.

Indubbiamente l’album parte dannatamente forte con "Hannah Jane", poderosa cavalcata rock infarcita dai ricordi di un’amicizia giovanile smarrita, causa lo scorrere del tempo e il cambiar delle abitudini. Ora da adulti ci si lecca le ferite, inevitabile prezzo da pagare per diventare grandi; permane, però, la possibilità di rivedersi e avere una spalla su cui piangere.

"Hold My Hand" è un altro vertice, vigorosa pop song intrisa di sfumature gospel nei cori a cui partecipa, e si sente, nientepopodimeno che David Crosby, straordinario special guest. “Tienimi la mano, ti porterò nella terra promessa” cantano a squarciagola gli Hooties con il loro ospite speciale e il pezzo volerà alto nelle classifiche come singolo, approfittando del ritmo estivo, contagioso. Ma, come tutti sappiamo, la felicità è effimera e arriva la struggente ballata "Let Her Cry" a confermarcelo, curiosamente scelta come secondo estratto dall’LP a Dicembre, quasi a voler far da contraltare alle atmosfere lievi del precedente, giocando sulla metafora delle stagioni. Guidata da un emozionante fraseggio di Bryan e da un organo malinconico opera di John Nau, uno dei musicisti di supporto in sala d’incisione, ecco un inno mid-tempo per i cuori che soffrono, ma nel testo c’è di più… c’è l’innamoramento per una persona alcolizzata e drogata, irrecuperabile. Rucker lo esprime così profondamente da commuoversi e commuoverci: “La scorsa notte ho provato ad andarmene, ho sofferto così tanto che non potevo crederci, era la stessa ragazza di cui mi ero innamorato tempo fa. È andata nel retro a sballarsi, mi sono seduto sul mio divano e ho pianto, urlando”.

La produzione di Don Gehman, uno che la sa lunga e nella sua carriera ha avuto a che fare con John Mellencamp e R.E.M., risulta impeccabile e lo si nota nella traccia più orecchiabile -altro big hit all’epoca- della raccolta, la spiritosa "Only Wanna Be with You" che narra della possibile convivenza tra un fanatico dei Miami Dolphins e la sua dolce metà, fra citazioni di brani di Bob Dylan, il quale sembra non abbia gradito la menzione rivalendosi pure in tribunale per i diritti d’autore, e amenità varie.

Anche l’intuizione di servirsi della bravura di Lili Haydn, per due pezzi straripanti musicalmente e liricamente, è degna di nota. "Running from an Angel", forse il motivo più vicino al country folk della tracklist, brilla su un incantato riff della violinista, supportato dalla chitarra di Bryan e in seguito dai bonghi di “Soni”, ma ancora una volta fa la differenza l’entrata in scena del cantante che dipinge da par suo il triste affresco di vita di un conoscente, che abbandona “l’angelo” che ha in sé per abbracciare “il diavolo” e far disperare la madre. "Look Away", più dura, ma sempre deliziata dalla delicatezza della Haydn, è invece il ritratto di una situazione ben conosciuta purtroppo da Darius Rucker, frontman nero di una band con pubblico e fans prevalentemente bianchi: quando l’idiozia del razzismo prevale sui sentimenti e la ragazza ti deve abbandonare per non dar dispiacere al papà, che desidera un fidanzato diverso per la figlia. Il tema della discriminazione era già presente in scaletta nell’impetuoso rock di "Drowning", episodio minore comunque sempre di alto livello insieme a "I’m Goin’Home", tenero tributo alla madre scomparsa, immaginata felice in alto nel cielo .

Ciò che accomuna ogni essere umano è lo scorrere del tempo, anche se ciascun individuo può averne una percezione diversa: partendo da questo spunto nasce la slow ballad "Time", dove appunto il tempo è un vagone dal moto incessante su rotaie implacabili per nessun dove; questa constatazione alimenta il sentimento di solitudine, perché qualsiasi cosa bella verrà superata dal necessario continuo divenire che smonta e rimonta in modo diverso i nuovi momenti dell’esistenza. Isolamento, lontananza, abbandono, causati in parte dalla fine di un amore ammantano il finale dell’opera e sono smorzati solo dalla soffocante bellezza delle melodie.

 

“I'm a stranger in my home
Living life on my own
Right now I just can't see
'Cause I'm feeling weak
And my soul begins to bleed
And no one is listening to me, not even the trees
Oh no no no no no no no.”

“Sono un estraneo in casa mia, vivendo la mia vita da solo, in questo momento non riesco proprio a vedere perché mi sento debole e la mia anima comincia a sanguinare e nessuno mi ascolta, nemmeno gli alberi. Oh no no no no no no no”.

 

"Not Even the Trees" è il prezioso regalo che riceve chi non si è fermato ai brani di successo, ma ha comprato l’intero disco e soprattutto l’ha ascoltato completamente: vale da solo il prezzo pagato, con quell’incipit tenue basato su una morbida sequenza di accordi di chitarra, prima dell’ingresso della voce e degli altri strumenti, fra cui le rilassanti percussioni create dalla glass harp. Un’armonia e un’atmosfera bellissime che rivivranno in modo simile in "Tucker’s Town" nel successivo piacevole, ma meno sorprendente, Fairweather Johnson di due anni più avanti.

L’ultimo pezzo, "Goodbye", costruito su un arpeggio di piano sembra la stoccata conclusiva con la presunta perdita della persona amata, ora tra le braccia di un altro, ma forse subentra la speranza “Anche al dolore vi è rimedio e staremo bene, non voglio vivere il giorno in cui mi dirai addio…”.

Poco meno di un minuto di "Motherless Child" a cappella figura come traccia nascosta che chiude l’album, uno spiritual urlato dal profondo del cuore per fare riemergere, nonostante tutte le asperità precedenti, la vita, degna di essere vissuta anche solo per cantare (e ascoltare) questo traditional ancestrale. Una rinascita che parte dall’antico, come sta capitando proprio agli Hootie & The Blowfish che, dopo l’interruzione delle attività nel 2008, in seguito ad alcuni episodi discografici di scarsa vena o comunque non recepiti degnamente dal grande pubblico, sono tornati in scena un paio di anni fa con un tour e un lavoro interessante, Imperfect Circle, impreziosito, nella ristampa del 2020, da una cover di "Losing My Religion".

In questo caso, però, parafrasando il titolo dell’album, il cerchio è perfetto e si chiude ripensando agli inizi, quando a Columbia i ragazzi suonavano le canzoni dei R.E.M. nei bar vicino all’università per qualche spicciolo e birre gratis, ignari di ciò che il futuro avrebbe loro riservato.