Da Nashville, Tennessee a Brooklyn, New York, la strada è lunga, molto lunga. Specie se sei una ragazza poco più che ventenne che sogna di costruire il proprio futuro con la musica. Oggi si può dire che Mackenzie Scott ce l'abbia fatta. È difficile prevedere se riuscirà ad esplodere davvero ma non è nemmeno questo il punto. Superati i giorni difficili in cui era un Ganesh dipinto sul muro di fronte a casa sua una delle poche fonti di conforto in una realtà ancora irta di difficoltà e priva di punti stabili (lo ha evocato lei stessa in “Croncrete Ganesha”, una delle nuove canzoni), può ora rassicurare il nonno paterno (da cui ha preso in prestito il monicker TORRES) sul fatto che non diventerà mai una dannata Yankee, come canta nel ritornello di “Tongue Slap Your Brains Out” ma allo stesso tempo quella è ora la sua casa e quello è un nuovo tassello della sua identità.
“Sprinter” era stato uno dei miei dischi preferiti del 2015. Avevo apprezzato l’irruenza delle sue canzoni, la sincerità dei testi, il vestito scarno al servizio di una proposta muscolare e autenticamente Rock, come una Pj Harvey improvvisamente tornata ragazzina. Quell’anno l’avevo vista dal vivo due volte, una in solitaria e una in compagnia della band. Entrambi concerti bellissimi, che mi avevano messo davanti un’artista in possesso non solo di una bella voce e di discrete capacità compositive ma anche di una visione artistica ambiziosa, potenzialmente in grado di proiettarla in breve tempo verso il successo, quello vero.
Ora è tempo per lei di affrontare il terzo disco, quello che secondo un luogo comune che non ho ancora capito se sia vero o no, è il più difficile per ogni artista.
Il dato nuovo è il passaggio alla prestigiosa 4AD, quello vecchio è che dietro la console siede sempre Rob Eliis anche se questa volta l’approccio è stato completamente diverso. C'è infatti molta più produzione in questo “Three Futures”, molta più elettronica e molta più stratificazione sonora, anche se in fin dei conti siamo sempre di fronte ad un lavoro improntato sulla chitarra e sulla voce della Scott, molto uniforme ma sempre espressiva e in grado di comunicare magnificamente la drammaticità e l’urgenza emotiva.
“Ho visto tre futuri: uno da sola, uno con te e uno con l’amore che ho saputo di aver scelto.”. Lo si vede anche nel video della title track, con tre differenti TORRES che si muovono nella stessa stanza, ciascuna con un’individualità precisa e apparentemente intenzionata a rivendicare la giustezza della propria scelta. Sono due i video (l’altro è quello del primo singolo “Skim”) ed hanno entrambi un certo grado di crudezza esplicita, non solo per il cunnilingus messo in bella mostra nel finale del primo ma anche per una gestualità caricata e una fisicità a tratti dirompente e vagamente disturbante. Come se, mi verrebbe da dire, la scoperta della propria identità passasse per l’esplorazione del proprio corpo e quella della dimensione sessuale ad essa connessa.
D’altronde al centro di queste canzoni c'è sì tanta determinazione ma essa arriva come risultato di un’insicurezza, di mille battaglie combattute con se stessa e con la persona amata, battaglie che non per forza sembrano essere state vinte. “Non c'è nessun angolo della stanza in cui mi trovo che non sia illuminato”. Nonostante questa affermazione, però, i demoni del passato non sembrano essere stati sconfitti del tutto e in mezzo ad un atteggiamento sicuro e spavaldo, le fragilità della ragazzina che era fanno ancora occasionalmente capolino.
“Three Futures”, per il resto, gioca la carta della riflessività: atmosfere sempre cupe come in “Sprinter” ma ritmi più rallentati e un ruolo maggiore dei campionamenti e dei tappeti di Synth, con una chitarra solista sporcata quanto basta a ricamare fraseggi che rendono ancora più alta la tensione. Le linee vocali sono nel complesso quelle a cui ci eravamo abituati e funzionano tutte, pur senza mai far gridare al miracolo.
La novità maggiore, oltre al vestito di cui queste canzoni sono ammantate, sta nei finali, con lunghe code Electro che più che allungare il brodo vanno a ribadire il concetto espresso nei minuti precedenti.
Non è un grande cambiamento, forse, ma non sfugge che forse l’intenzione di TORRES a questo giro sia stata quella di volersi staccare dall’etichetta di “Nuova Pj Harvey” per andare ad abbracciare lidi più vasti, che toccassero anche la Wave, il Post Punk e l’elettronica, oltre che il solito Rock al femminile.
Ci è riuscita? Indubbiamente questo è un disco interessante e variegato ma non riesce a ripetere l’exploit del suo predecessore. I pezzi belli non mancano: in particolare “Helen in the Woods”, tirata e nervosa, con un’interpretazione vocale ai limiti della crisi di nervi. Altrove però affiora la stanchezza e non tutti i brani riescono ad incidere. Si veda per tutti la conclusiva “To Be Given a Body”, sorta di narrazione faulkneriana sul modello di “The Exchange”, sul disco precedente, che non riesce però ad elevarsi alle stesse vette di perfezione emotiva.
Ci vorrà del tempo, quindi, prima che le indubbie doti di Mackenzie Scott sfocino in un prodotto che riesca ad esprimerne la vera grandezza. Per il momento accontentiamoci di quel che abbiamo tra le mani adesso: è un passo indietro ma non così clamoroso. Ci regalerà lo stesso diverse ore piacevoli di ascolto, nei mesi a venire.