In effetti c’era anche questo, nel lunghissimo elenco dei concerti saltati per pandemia. I Nada Surf avrebbero dovuto venire dalle nostre parti nella primavera del 2020, nell’ambito del tour dell’ultimo Never Not Together. In mezzo c’è stato il Covid, i rinvii, tutto il resto, per cui ci si ritrova più di due anni dopo, a cercare di capire se abbia ancora un senso ascoltare le canzoni di un lavoro che ci appare già lontanissimo nel tempo. È un po’ anche il destino dei Nada Surf, in fondo. Una band che ha vissuto una brevissima stagione di hype, prima di essere ricacciata indietro, nel calderone dei gruppi che esistono solo nello sguardo amoroso e attento dei propri fan, e che nell’itinerario della storia della musica sembrano quasi non esserci mai stati.
Tra i rimpianti per la fine dell’era Grunge e l’esplosione del Brit Pop, l’Indie Rock di Matthew Caws e Daniel Lorca ha sempre rappresentato un approdo sicuro, una scrittura di pochi elementi e grande efficacia, un cammino discografico intenso e privo di flessioni, nonostante il successo commerciale non sia mai di fatto andato oltre l’esplosione di Let Go, celebrato con un tour nel 2018, che è stata anche l’ultima volta che li abbiamo visti dalle nostre parti.
Potranno essersene accorti in pochi, ma i Nada Surf non si sono mai sciolti, hanno continuato a fare dischi e con l’ultimo di questi, Never Not Together, appunto, hanno dimostrato uno stato di forma decisamente invidiabile, facendo apparire di una disarmante facilità il continuare a dire cose interessanti utilizzando sempre la stessa formula.
Il primo incontro con l’interno del Santeria è piuttosto desolante ma si sa che a Milano prima delle 21 non si muove nessuno. Va da sé dunque che i Fernandhel si trovano ad esordire nel capoluogo lombardo avendo davanti solo poche decine di persone. Non sembra che a loro dispiaccia, comunque. And the Gatten Army, uscito a fine settembre, è l’esordio sulla lunga distanza, dopo una manciata di singoli, per il nuovo progetto di Livio Montarese (ex Peawees), ed è un onesto Punk Rock quello che ci propongono stasera, canzoni dal ritmo sostenuto e dai ritornelli anthemici, ben costruite e sufficientemente efficaci. La prova live non è proprio impeccabile, visto che manca all’appello un chitarrista e vocalmente Livio sembra un po’ affaticato. Nonostante tutto si divertono e suscitano un generale apprezzamento tra gli ancora pochi presenti, compreso un Matthew Caws che si è ascoltato il set in platea, sorseggiando una birra. Interessanti, ma andrebbero rivisti ad organico completo.
Di tutt’altra pasta Kevin Devine, cantautore di Brooklyn da noi pressoché sconosciuto ma autore di più di venti dischi a partire da inizio millennio. Sul palco è allegro e comunicativo, ricorda di essere venuto a Milano due volte, la prima delle quali nel 2007, ma ha detto che non si ricordava il nome del locale e che andrà a cercarlo su internet (per la cronaca, ci ho provato e non l’ho trovato). Sta in scena da solo, accompagnato dalla chitarra acustica, e propone una versione scarna ma ugualmente affascinante di episodi che nelle versioni in studio si presentano normalmente più carichi di arrangiamenti. “I Was Alive Back Then”, “Override”, “No History”, o una particolarmente affascinante “Brother’s Blood”, incantano il pubblico per una mezz’ora che vola via e che ci ha lasciati alquanto desiderosi di ascoltare di più. Bella anche la scelta di non limitarsi ad una riproduzione acustica dei brani, ma di arricchirli con fraseggi solisti e continui cambi di dinamica, in modo da rendere il breve set sufficientemente variegato al proprio interno, nonostante la povertà dei mezzi a disposizione. Un artista senza dubbio da scoprire, sperando che non passino altri cinque anni prima di poterlo rivedere.
Cambio palco un po’ più lungo del solito (anche perché non c’è assolutamente nulla da cambiare) ed ecco infine i Nada Surf salire sul palco. La formazione è la solita, coi tre membri originali Matthew Caws (voce e chitarra), Daniel Lorca (basso) ed Ira Elliot (batteria) affiancati da Louie Lino alle tastiere. Sono invecchiati, certo, ma portano gli anni con leggerezza, l’attacco fulmineo di “Popular” a dimostrare che lo smalto è ancora quello di un tempo. È interessante questa scelta di aprire i concerti di questa leg finale del tour europeo con quello che è stato il loro primo successo e che costituisce ancora oggi il loro episodio più celebrato: lo rende forse un pezzo come gli altri, non crea quell’aspettativa di ascoltare solo e comunque i vecchi classici, oltre che il brano in sé è robusto quanto basta per mettere immediatamente lo show sui binari giusti.
Ad ogni modo i nostri sono in forma smagliante: Caws compassato ma sempre efficace, la voce che fatica un po’ sulle note più alte ma la chitarra pulita e scintillante come sempre; Lorca accanto a lui è scenicamente più rilevante ed è una bella sicurezza nell’economia del quartetto, basso martellante e preciso, seconde voci un po’ troppo basse nel mix ma ugualmente fondamentali; Elliot è il solito batterista implacabile, che fa sempre le stesse cose ma le fa con una precisione ed un tiro invidiabili, centro propulsore di una band che, melodie a parte, ha sempre posseduto una potenza nient’affatto scontata. A completare il quadro, Louie Lino risulta fin troppo penalizzato dalle scelte in sede di missaggio, perché il suo strumento si sente poco, anche se nei punti fondamentali riesce nel compito di riempire a dovere lo spettro sonoro.
Dicevamo della potenza: i Nada Surf sono prima di tutto un gruppo rock, e il modo con cui aggrediscono i brani è lì a dimostrarlo sin dalle battute iniziali: “Telescope”, “Hi-Speed Soul”, “The Plan”, un trittico da togliere il fiato, tiro e melodia che vanno a braccetto, valorizzate da esecuzioni impeccabili e prive di sbavature.
I quattro colpiscono poi per l’attitudine positiva e solare, quattro amici che a trent’anni di distanza si divertono ancora un mondo a fare quello che fanno, felici di trovarsi di nuovo on the road, intenzionati a vedere in un’esperienza del genere un regalo inaspettato, senza troppe preoccupazioni sul fatto se si rientrerà o meno con le spese.
È anche un’occasione per raccontarsi, come quando, appena prima di “Là Pour Ça”, Daniel racconta delle sue origini spagnole, del periodo passato in Belgio, per spiegare il motivo per cui la lingua francese abbia avuto sempre una certa importanza nell’economia del gruppo. Oppure, per introdurre “Mathilda” (a mio parere il miglior pezzo dell’ultimo disco), Matthew ripercorre l’episodio della sua infanzia raccontato nel testo, quando da piccolo aveva un aspetto femminile e per questo veniva preso in giro dai compagni, trovando invece pace e rassicurazione nel modo in cui il padre gli ha sempre voluto bene, senza fargli pesare il suo aspetto esteriore; o ancora, prima di “Looking For You”, altro bel pezzo da Never Not Together, parla dei benefici della terapia e delle scoperte che lo hanno portato a scrivere quella canzone. Un modo di mettersi a nudo non scontato, che lo rende vicino al pubblico e che dona al concerto una componente di empatia che ce lo rende ancora più speciale.
Hanno voglia di suonare, i Nada Surf, e si va avanti per due ore piene, una lunga successione di brani vecchi e più recenti, suonati davanti ad un pubblico adorante ed affettuoso. Per una volta vediamo pochi telefonini, anche durante gli episodi più famosi, segno che ogni tanto il desiderio di godersi la serata supera tutto il resto.
Per quanto riguarda la setlist, risultano vincenti come sempre i brani da Let Go, tra cui spicca senza dubbio l’epica “Killian’s Red”, probabilmente tra i loro brani più belli di sempre, o una “Inside of Love” particolarmente emozionante, accompagnata da un singalong che ha sorpreso la stessa band, tanto che Matthew ha poi ringraziato il pubblico per la partecipazione.
Funzionano benissimo anche brani più recenti come “Friend Hospital”, “Looking Through” e la meravigliosa “See These Bones”, oltre ad una intensa “Come Get Me”, una traccia dell’ultimo disco che solo di recente hanno iniziato a proporre dal vivo, devo dire con ottimi risultati.
Ben accolti anche classici come “Hyperspace” e “Bad Best Friend”, mentre nei bis, aperti da un’energica “So Much Love”, sale in cattedra un disco come The Weight is a Gift, magari non celebrato come il predecessore, ma niente affatto inferiore in quanto a meriti artistici: “Always Love” e “Blankest Year” (quest’ultima ultra carica, con tanto di invito ad alcuni fan in prima fila a raggiungerli sul palco per ballare) beneficiano di esecuzioni solidissime, prima che i quattro decidano di salutarci definitivamente con un’emozionante “Blizzard of ‘77”, suonata in acustico e senza microfoni, con tutti loro impegnati nelle parti vocali.
Un concerto bellissimo, quasi d’altri tempi, per una band che, consentitemi per una volta una divagazione nostalgica, rimarrà per sempre indispensabile, nonostante si ritrovi oramai a suonare quasi esclusivamente per coloro che c’erano all’epoca.
Photo credits: Fabio Campetti